È il come, e non tanto il cosa, il problema creato da Federico Mollicone con la sua intervista alla Stampa in cui attaccava direttamente le sentenze sulla strage di Bologna. La partita, infatti, non si gioca sulle tesi più o meno strampalate del presidente della commissione Cultura della Camera, ma sugli equilibri interni di Fratelli d’Italia, partito meno monolitico di quello che l’assoluto strapotere di Giorgia Meloni e famiglia lasciano intendere. Mollicone, er Mollica, è uno degli ultimi fedelissimi di Fabio Rampelli, il leader della corrente dei cosiddetti Gabbiani, cioè quelli che in un partito più normale si potrebbe definire come minoranza interna. Questo sconfessa la linea che Mollicone sia la tipica seconda linea incaricata di dire in pubblico quello che Meloni non può dire e giustifica quindi i malumori discesi da palazzo Chigi per l’intervista. Lui, comunque, difende le sue parole spada tratta.

«HO PREMESSO che le sentenze vanno sempre rispettate anche quando non si condividono e che siamo le persone più lontane da Bellini, dal suo curriculum criminale, perché Bellini è un criminale – ha detto ieri -. Le sentenze si rispettano, ma bisogna avere la possibilità, ed è previsto dalla Costituzione, di chiedere con un’interrogazione parlamentare al ministro della Giustizia se in quello sciame di processi siano state rispettate le garanzie di accusa e difesa e il cosiddetto giusto processo. E’ quello che farò con la mia interrogazione». Non un passo indietro, dunque, ma tre in avanti, perché coinvolgere Nordio nella partita vuol dire esacerbare ulteriormente gli animi intorno alla strage del 2 agosto 1980.

Un’altra grana ancora per la premier, che già avrebbe i suoi problemi sul punto dopo il botta e risposta con il presidente dell’associazione dei familiari delle vittime Paolo Bolognesi. «La Costituzione è bella perché garantisce l’insindicabilità dell’azione parlamentare», ha rintuzzato ancora Mollicone, ribadendo la sua intenzione di rivolgersi a Nordio per capire «se in quel processo sono state rispettate le garanzie, se tutte le prove sono state ammesse, e se tutti i testi di accusa e difesa sono stati ammessi. Perché questo purtroppo non è accaduto».

Nel merito la risposta sarebbe semplicissima: di elementi per riaprire i processi definitivamente conclusi non ce ne sono: le prove sono sempre le stesse e sono state valutate più e più volte, da tanti giudici diversi, un’eventuale revisione dovrebbe passare per elementi nuovi che tuttavia nessuno sostiene di avere e un’ispezione su sentenze da tempo passate in giudicato sarebbe un’azione ai limiti della correttezza istituzionale. Per quanto riguarda Bellini (quinto e ultimo esecutore materiale individuato dalla procura di Bologna) resta ancora da attendere il pronunciamento della Cassazione. L’attacco di Mollicone, in sostanza, è in tutto e per tutto strumentale. E il bello è che anche il deputato di FdI sembra esserne consapevole: «Si è creata una bolla polemica sul nulla, sono sicuro che si riassorbirà».

IN OGNI CASO, le opposizioni insistono nel chiedere a Meloni la sua testa, possibilmente su un piatto d’argento. Gli appelli in questo senso piovono da due giorni nelle agenzie di stampa, mentre Meloni tace e pure dal resto di FdI non arrivano commenti, a parte quello di Francesco Lollobrigida, che prova a gettare acqua sul fuoco. «Diciamo che le polemiche non servono a nessuno – ha dichiarato a margine della firma di un protocollo d’intesa al ministero dell’Agricoltura -. Le risposte le hanno già dati i miei colleghi di partito. Credo che sia totalmente chiara qual è la posizione di Fratelli d’Italia, del nostro governo in relazione agli accadimenti storici».

La posizione di cui parla il cognato della premier è però ambigua. Si parla infatti di «strage che le sentenze attribuiscono ai neofascisti», un giro di parole oltremodo barocco a lasciare intendere che fuori dalle aule dei tribunali ci sarebbe molto da dire. Cosa? Una possibile risposta è nella parte mancante del parere espresso sulla strage da Matteo Piantedosi. Intervistato dal Corriere della Sera, il ministro degli Interni ha ammesso senza tanti giri di parole la «matrice nera», ma ha dimenticato tutta l’altra parte della storia: quella che include pezzi grossi dello stato tra gli organizzatori e i depistatori.

A PARTIRE da Federico Umberto D’Amato, forse il poliziotto più famoso della prima Repubblica. Perché, al di là delle sentenze, l’inquadramento storico di quanto accaduto 44 anni fa a Bologna è nella naturale prosecuzione della strategia della tensione. Fu una strage di stato con manovalanza fascista.