Dei due volti di San Giuliano di Puglia, il più spaventoso è quello che vorrebbe essere bello. C’è un paese tutto nuovo, un bambino nel corpo di un gigante, tirato a lucido dopo il terremoto che l’ha distrutto diciotto anni fa. E c’è, sulla collina opposta, un paese abbandonato che da lontano ricorda un campo di lavoro e da vicino è un catalogo di edifici, mobili e oggetti lasciati lì a farsi consumare dal tempo che passa. Qui, nel profondo Molise, dicono che sia cominciato tutto: il modello italiano di gestione delle emergenze, quello che vediamo all’opera ad ogni terremoto, ad ogni alluvione, ad ogni frana e, da poco, anche in occasione di una pandemia, trae le sue origini in questa terra che odora di biomasse e il cui paesaggio è tutto un alternarsi di borghi rurali e uliveti e campi di girasole.

LA DATA È QUELLA di giovedì 31 ottobre 2002, l’orario è le 11.32 del mattino, la magnitudo 6.0 gradi sulla scala Richter. Crolli, danni, panico e una scuola che viene giù: 27 bambini e una maestra non verranno fuori vivi dalle macerie. Altre due persone moriranno altrove. I feriti sono centinaia, gli sfollati tremila sparsi su quattordici comuni minuscoli, al confine tra le province di Campobasso e Foggia. L’uomo che venne chiamato ad occuparsi della questione era Guido Bertolaso, già allora capo della Protezione civile. «Sembrava un condottiero», ricorda don Antonio Di Lalla, parroco a Larino, poco distante da San Giuliano di Puglia, tipico prete da battaglia di trincea. Nel suo appartamento campeggia in bella vista una foto di Che Guevara e per le scale c’è un gran via vai di rifugiati e richiedenti asilo, accolti e difesi in un posto che evidentemente non li ama e li guarda con sospetto. Di Lalla non si tira indietro mai in queste occasioni, e ancora sventola con orgoglio un numero del manifesto del 2009, in cui si parlava di lui per uno striscione di protesta affisso dopo l’emanazione di un decreto sicurezza. È lui, tra le altre cose, l’anima del mensile La fonte, periodico «dei terremotati o di resistenza umana», da diciassette anni voce critica delle alterne vicende molisane.

«D’ALTRA PARTE – prosegue don Antonio – qui eravamo disperati e Bertolaso sembrava avere il mondo ai suoi piedi: telefonava e risolveva problemi, ordinava e in tanti obbedivano ai suoi ordini. Solo dopo abbiamo capito…». Alcuni, per meglio dire, hanno capito: Bertolaso è cittadino onorario di San Giuliano, dove è oggetto di una specie di adorazione popolare. In fondo, anche qui, bisogna capire: questo paese di mille abitanti può contare su servizi e infrastrutture da metropoli? Strisce pedonali in marmo, strade nuove, una piscina olimpionica, un palazzetto dello sport, due edifici per l’università (vuoti, al massimo hanno ospitato un call center), un parco dedicato alle vittime del terremoto che richiama il memoriale dell’olocausto di Berlino, un municipio che sembra il Quirinale. Mancano solo le maniglie d’oro alle porte delle case.

Affacciandosi sulla strada che porta verso Campobasso, però, guardando verso sud il grigio e marrone delle duecentosettanta casette di legno costruite all’indomani del terremoto è una stonatura che si fa notare. Qui l’erba in mezzo alla carreggiata è alta oltre un metro, le casette sono state sfondate, abitate abusivamente da chi ne ha bisogno durante i mesi freddi, vandalizzate e rese sostanzialmente inutilizzabili. La scuola provvisoria, la Francesco Jovine, è una carcassa enorme al cui interno non c’è niente di integro: sanitari sbriciolati, estintori per terra, cataste di sedie, bottiglie vuote, bottiglie quasi piene, bottiglie rotte. Resti di cibo, abiti stracciati. E nonostante questo sul pannello dell’elettricità brillano ancora delle spie rosse: la corrente è attaccata. Sui muri, le targhe che riportano i nomi dei donatori sembrano una presa in giro: l’abbandono è totale, e centinaia di migliaia di euro di materiale vario giace senza che nessuno lo rivendichi, senza che nessuno lo ricordi.

MA COSA HA CAPITO don Antonio? «Chi ha voluto mangiare, ha mangiato». Tra l’altro, San Giuliano è come nuova, ma gli altri tredici comuni terremotati sono stati rimessi in piedi alla bell’e meglio e la ricostruzione non è mai finita del tutto. Il timore, per chi ad esempio conosce un minimo il cratere del terremoto del 2016, è di star osservando come sarà tra vent’anni l’Appennino tra le Marche, il Lazio, l’Umbria e l’Abruzzo.

La verità, però, è che il cratere del Molise è probabilmente una zona terremotata già da prima del terremoto: è difficile capire se il tono di rinuncia delle persone sia precedente a quello che è successo nel 2002 o se ne è una conseguenza. Il detto più in voga tra i molisani, praticamente un manifesto ambientale, pare sia un laconico «lasciamo fare a dio». E qui Bertolaso, sospinto dalla retorica berlusconiana del gigantismo a tutti i costi, ha sperimentato le ricette che poi avrebbe applicato ad esempio a L’Aquila o quando nei mesi scorsi ha tirato su dal nulla due ospedali provvisori a Milano e Civitanova Marche: tanti soldi, opere faraoniche, eccessi vari e poi dimenticanza, abbandono, lasciare che le cose accadano. E tanti saluti fino alla prossima emergenza.

A SAN GIULIANO, adesso, il ricordo del terremoto è una ferita ancora aperta ma di cui si parla poco e malvolentieri. È andata, semplicemente. E c’è anche un colpevole: l’ex sindaco Antonio Borrelli, condannato in via definitiva dopo tre processi complicatissimi (assoluzione in primo grado, condanna in Appello e in Cassazione) insieme a dei tecnici, per non aver chiuso la scuola dopo alcune scosse di piccola magnitudo nei giorni che hanno preceduto la botta grossa. Quello che si dimentica sempre di dire, però, è che il colpevole Borrelli con il terremoto ha perso sua figlia Antonella, sei anni. Un volto della leva del 1996, estinta a metà mattina, il 31 ottobre di diciotto anni fa.