Ieri a Baghdad è arrivato Esmaeil Qaani, capo delle al-Quds, le unità d’élite delle Guardie rivoluzionarie iraniane. Un po’ a sorpresa, sebbene sia uno di casa in Iraq. Il successore del generale Soleimani (ucciso da un drone americano il 3 gennaio 2020) ha incontrato il presidente iracheno Barham Salih e il primo ministro Mustafa al-Kadhimi, a poco più di 24 ore dal suo tentato omicidio.

Vertice non annunciato ma inevitabile dopo l’attacco compiuto nella notte tra sabato e domenica contro la residenza del premier. In piena Zona Verde, tra i luoghi più sorvegliati della capitale, l’edificio è stato oggetto del lancio di tre missili via drone, due intercettati e uno piovuto sul tetto. Sei guardie sono rimaste ferite. Al-Kadhimi è apparso poco dopo in un video con un polso fasciato, ma ha negato di essere stato ferito. Sarebbe stato altrove al momento dell’attacco.

Vertice inevitabile perché i sospetti sono i soliti: le milizie sciite filo-iraniane, galassia composita che si è espansa a velocità impressionante negli anni di guerra allo Stato islamico, con il nome di Unità di Mobilitazione popolare (Pmu). Il ruolo avuto nella battaglia a Daesh ha fatto da testa d’ariete per il riconoscimento politico: si sono fatte partito (la federazione Fatah), alcuni dei suoi leader sono tra i più potenti e temibili del paese.

Ieri Kadhimi ha detto di conoscere l’identità dei responsabili, ma non l’ha resa nota. In cima alla lista ci sono le Kataib Hezbollah, legatissime a Teheran: il loro leader storico Abu Mahdi al-Muhandis viaggiava in auto con Soleimani il 3 gennaio 2020, è stato ucciso con lui.

I loro volti tappezzano le strade delle città irachene, quelle di Baghdad e della Zona Verde, sede delle istituzioni irachene che così ribadiscono la vicinanza alla Repubblica islamica. Le Kataib Hezbollah, per bocca del leader Abu Ali al-Askari, negano un coinvolgimento e optano per il «complotto»: una mossa dello stesso Kadhimi per attirarsi un po’ di simpatie, «fare la parte della vittima». Sospettate anche le Asaib Ahl al-Haq: sabato, poche ore prima, il loro comandante Qais al-Khazali aveva minacciato «di punire» il premier.

E Qaani allora è volato a Baghdad: ha detto che ogni attentato alla stabilità dell’Iraq va evitato e che Teheran è pronta a sostenere l’alleato nell’inchiesta sull’accaduto. Ha però anche lanciato la sua stoccata: Baghdad ascolti le proteste che in queste settimane attraversano la capitale contro i risultati elettorali.

Lì starebbe una delle chiavi di lettura. Il 10 ottobre scorso l’Iraq è andato alle urne (affluenza bassissima, appena il 41% dopo la campagna di boicottaggio politico del movimento popolare di piazza Tahrir) e ha fatto vincere il leader sciita Moqtada al-Sadr, rivale della galassia delle milizie di cui chiede da tempo l’integrazione nell’esercito regolare e apripista ai rapporti con i Saud. Fatah ha perso, portando a casa 14 seggi, un terzo di quelli delle elezioni del 2018.

I sostenitori delle varie milizie hanno protestato, avviato presidi (non troppo partecipati), fino a venerdì scorso: prima il tentativo di 300 persone di entrare nella Zona Verde, poi gli scontri con le forze di sicurezza. Bilancio finale di 120 feriti e un ucciso, un comandante delle Asaib Ahl al-Haq (da cui le minacce di al-Khazali).

Kadhimi non doveva morire, ma ricevere un messaggio dopo aver ordinato, nei mesi scorsi, alcuni arresti eccellenti tra le fila delle Pmu, per lo più legati a omicidi di attivisti nel sud sciita. Ma l’attacco è letto da più parti come chiaro segno di nervosismo. E dunque di debolezza.

Di certo tutti lo considerano un atto controproducente: da domenica si susseguono le condanne dell’intero spettro politico iracheno, anche di leader delle stesse Pmu e di figure vicine a Fatah (come l’ex premier al-Maliki, che nelle settimane scorse ha ospitato a casa sua i leader miliziani per decidere «il da farsi» dopo la vittoria di al-Sadr). È stata superata una linea rossa, dicono tutti. Un confronto politico-militare che alza la tensione e dimentica i reali problemi della popolazione, crisi economica e povertà crescente.