Il festival lo ha fondato nel ’95 e diretto fino a due anni fa, durante l’assedio è stato tra gli organizzatori dell’Apollo First War Cinema dove tra le granate e le pallottole dei cecchini serbi, insieme a altri ragazzi giovani come lui tutti legati all’Accademia di Performing Art, proiettavano film. Prima una volta a settimana, poi vista la risposta entusiasta delle persone – che arrivavano numerosissime nonostante il pericolo di morire – ogni giorno. La piccola sala sotterranea era piena, l’entrata si conosceva per passaparola, il varco era un buco nel muro dell’edificio della scuola di Performing Art lungo il fiume, a supportare questo loro magnifico gesto di resistenza sono arrivati ben presto artisti e artiste da tutto il mondo. Oggi Mirsad Purivatra vive in un piccolo centro con la famiglia – «Ventisette anni di lavoro festivaliero sono abbastanza» sorride – però del festival è sempre un riferimento fondamentale, vista l’agenda fitta che non gli permette un tempo lungo di conversazione ai tavolini del Festival Meeting dove ci incontriamo. «Prima della guerra lavoravo all’Obala Art Center, il laboratorio che organizzava l’attività culturale dell’Accademia di arte drammatica; producevamo spettacoli di teatro che andavano in tourneé in tutto il mondo e curavamo la programmazione cinematografica. All’Accademia negli anni Ottanta erano venuti coi loro film registi tra cui Fassbinder, Wenders, Jarmusch. Con la guerra era impossibile proseguire, non c’era elettricità, non avevamo da mangiare, tanti di noi erano andati via» racconta.

Poi cosa è accaduto? Come siete arrivati all’Apollo First War Cinema?

Ci siamo resi conto che per sopravvivere fisicamente dovevamo trovare il modo di rimanere vivi mentalmente, le persone hanno bisogno di qualcos’altro oltre al cibo per fare fronte a una situazione come era quella dell’assedio di Sarajevo. La cultura è stata la risposta, in quanto era qualcosa che apparteneva a tutti. È stato così che abbiamo deciso di creare l’Apollo First War Cinema, ma come farlo senza elettricità e in una città assediata? Grazie all’aiuto di alcuni giornalisti internazionali e delle forze dell’onu siamo riusciti a avere un generatore; abbiamo utilizzato il proiettore che era all’Accademia e i film della biblioteca, per lo più dei classici. L’assedio dal 1992 è andato avanti fino al 1995, noi abbiamo cominciato le proiezioni nel 1993, ne facevamo una alla settimana ma sono diventate subito talmente importanti che siamo passati a farne una ogni giorno. Il festival è nato da questa esperienza.

A trent’anni di distanza la necessità di confrontarsi con la guerra attraversa la produzione culturale, i film e non solo, la cultura sembra lo spazio privilegiato della memoria e della storia specie per le generazioni più giovani. Cosa ne pensa?

Il festival è diventato un catalizzatore importante per le nuove generazioni di registi, molti ragazzi e ragazze venivano all’Apollo durante l’assedio, lì hanno deciso di fare film cambiando il proprio indirizzo di studi. Registe affermate internazionalmente come Aida Begic e Jasmila Zbanic hanno iniziato lavorando come volontarie al festival, sono cresciute con noi. Siamo riusciti a costruire una piattaforma per i giovani in una città come Sarajevo dove tutto era contro questa scommessa; non c’erano soldi, studi, strutture, produzioni televisive eppure abbiamo reso il festival un ambiente di incontro internazionale per tutti i filmmaker della regione, bosniaci, serbi, croati, del Montenegro, della Slovenia, del Kosovo che vengono, presentano i propri lavori, hanno una visibilità. Ci sono ancora molte storie da raccontare che riguardano la nostra storia che sono profonde, commuoventi, con un valore per ogni essere umano. E che proprio a partire dall’esperienza dell’assedio di Sarajevo possono aiutare a rendere la città un luogo di amicizia e la cultura una priorità.

Le tensioni non sembrano però risolte, basta anche una piccola questione come ha dimostrato nei giorni scorsi il caso del work in progress del film serbo («Heroes of the Halyard» accusato di essere filo-cetnico) a scatenare tempeste politiche.

Forse oggi l’equilibrio è più fragile che trent’anni fa ma questa può essere anche una sfida. I Balcani sono sempre stati turbolenti, è una caratteristica che rende la vita non semplice ma che può anche dare uno spunto ai giovani per delle buone storie. In fondo una società noiosa genera racconti noiosi. Rimanere fuori dalle dispute dei politici è molto difficile, noi vogliamo essere dei professionisti del cinema, a volte invece la politica diventa irragionevole e uccide le speranze delle nuove generazioni, per questo tanti giovani scelgono di andare altrove. Negli anni Novanta era tutto molto faticoso, non c’erano soldi, ma essere indipendenti è stato fantastico, siamo fieri di dire che in trent’anni nessuno politico è salito sul palco, il nostro è stato sempre un festival soltanto di filmmaker.