A fine gennaio Der Spiegel lo aveva proclamato santo: «Sankt Martin» sorrideva, contornato da colorati raggi cosmici, dalla copertina del settimanale. E, in effetti, Martin Schulz, l’ex presidente del Parlamento europeo ritornato in Germania per tentare la scalata alla cancelleria, i miracoli sembra riuscire a farli davvero. Per la prima volta da 10 anni a questa parte, domenica scorsa, i sondaggi davano la socialdemocrazia in vantaggio di un punto sulla Cdu di Angela Merkel (33 a 32 per cento), mentre lui, Sankt Martin, il pellegrino piovuto da Bruxelles, può vantare un indice di gradimento che distacca di ben 11 punti, la cancelliera che, fino a ieri, non sembrava avere rivali (49 a 38). In poche settimane la Spd si aggiudica 3.000 nuovi iscritti e a ogni iniziativa pubblica Schulz fa il tutto esaurito. Il partito sembra essersi improvvisamente risvegliato dal rassegnato torpore in cui versava ormai da anni.

Ieri il nuovo leader si è conquistato le prime pagine dell’intera stampa tedesca dichiarando di voler correggere l’Agenda 2010, la celebrata riforma del mercato del lavoro e della previdenza con la quale, nel 2003, la coalizione rosso-verde guidata da Gerhard Schroeder aveva assicurato la competitività tedesca a spese dei salari e delle prestazioni sociali. La Spd aveva pagato caro il colpo sferrato contro la sua tradizionale base elettorale con la perdita della maggioranza e una lunga subalternità, sembrava senza via di uscita, alla Cdu/Csu. Quest’ultima, non dovendo più mettere mano a tagli e restrizioni, aveva potuto aggiudicarsi i vantaggi della riforma per le imprese senza doversi addossare la responsabilità dei suoi costi sociali.

In realtà il miracolo Schulz ha una spiegazione piuttosto semplice ed è sorprendente che la Spd ci abbia messo così tanto tempo ad arrivarci. Grazie al lavoro svolto da Schroeder, Angela Merkel ha potuto spostare verso il centro-sinistra l’asse del suo partito lasciando progressivamente impallidire il ruolo e la stessa ragion d’essere della socialdemocrazia. Non era certo necessaria una rivoluzione ( per la quale Sankt Martin non è affatto tagliato), ma senza una ben visibile svolta a sinistra la Spd era destinata a sprofondare nell’insignificanza. E cosa c’è di più visibile del togliersi dal collo la pietra dell’odiata Agenda 2010.

Schulz si propone, in particolare, di protrarre nel tempo l’erogazione del sussidio di disoccupazione più sostanzioso, quello calcolato su una percentuale dell’ultimo salario percepito (poi subentra il sussidio minimo di sussistenza) che riguarda quei lavoratori che dopo aver versato numerosi anni di contributi si vedono negare dopo pochi mesi il diritto acquisito. Si tratta di operai e impiegati di una certa età, tagliati fuori dalla razionalizzazione del sistema produttivo, che non hanno perdonato alla Spd, alla quale in larga misura andava il loro voto, di avergli voltato le spalle. Schulz promette poi, più genericamente, di voler frenare e regolamentare il ricorso ai contratti a termine. Insomma, misure di classico stampo socialdemocratico che provengono da dove logicamente dovevano provenire. E che indicano però, in questo caso, una inversione di rotta, la rimozione di un tabù. Comincia a vedersi qualche incrinatura nell’idea che tutto debba essere sacrificato alla competitività del modello tedesco, al suo export, all’avanzo commerciale (fuori dai parametri stabiliti dalla Ue) che un bel pezzo d’Europa paga con i suoi deficit e con la recessione.

Ma le elezioni sono ancora piuttosto lontane ed è difficile prevedere la tenuta di quell’immagine di outsider di cui oggi Schulz si può avvalere. E ancora più difficile dire fino a dove potrebbe spingersi il candidato (personaggio prudente e restio a ogni radicalismo) sulla strada di una ripresa della dinamica salariale, dei consumi e della spesa pubblica in Germania. Ancora incerto è poi come si muoverà sullo scacchiere europeo, questa volta a partire dal nido dei falchi di Berlino.

Vi sono pochi dubbi però che nelle socialdemocrazie europee l’aria stia cambiando nel senso di un ripensamento di quella conversione al neoliberismo che aveva segnato l’operato di Blair, di Schroeder, di Hollande (l’ultimo arrivato). Schulz sembra collocarsi in questa scia di cambiamento nel paese più decisivo e tetragono del continente.