Marcello Minenna, direttore generale dell’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli non ha smesso i panni dello studioso dell’economia globale. Oltre due mesi di guerra stanno producendo effetti pesanti sulle prospettive di crescita mondiale riviste sempre più al ribasso. La sensazione è però che le conseguenze siano imprevedibili.
È indubbio che alla pandemia, che ha avuto un effetto di tipo stop-and-go sull’economia mondiale, si è aggiunto l’elemento bellico che sta pesantemente influenzando le catene di approvvigionamento globali che hanno interconnessioni paragonabili a quelle di una fitta ragnatela. Basti pensare che uno studio Dun & Bradstreet, una società di analisi per le imprese, quantifica in 400 mila le aziende che hanno fornitori di primo (prodotti) o secondo (componentistica) livello in Russia e 250 mila in Ucraina. Una situazione che crea problemi ovunque e che sta bruciando la ripresa intravista nel 2021.

La nuova ondata di contagi in Cina e la politica zero-Covid portata avanti da Pechino chiudono il cerchio: se rallenta anche la locomotiva cinese l’economia mondiale rischia di piantarsi.
Siamo davanti a una sorta di tempesta perfetta. Gli effetti della variante Omicron nelle metropoli come nel porto di Shanghai e nelle zone più produttive della Cina sono molto pesanti anche perché gran parte della manifattura arriva da quella rotta. Il circolo vizioso pandemia-guerra è molto grave a livello economico tanto che sembra non vedersi la luce in fondo al tunnel. Detto questo, non dobbiamo lasciarci scoraggiare: le capacità di adattamento dell’economia mondiale si sono già dimostrate notevoli in passato.

Le notizie di queste ore da Mosca non lasciano prevedere soluzioni a breve termine. Ma anche se fosse, le conseguenze della guerra saranno più lunghe e durature della pandemia?
Molto dipenderà da come verrà trattata la Russia nel dopoguerra. Se si entrasse in un ordine di idee di imporre una linea per revisionare subito l’apparato sanzionatorio, il recupero potrebbe anche essere veloce. Dopo tutto le sanzioni al momento non stanno colpendo il gas e questo è già indicativo. D’altro canto la guerra ha già avuto conseguenze sulle rotte delle merci che arrivano dall’Est, per via dei disagi sulle ferrovie russe che fanno parte della rete ferroviaria Eurasiatica. Tuttavia, anche in questo caso il sistema logistico si sta rimodulando in fretta inventandosi nuove rotte, sebbene (almeno per ora) meno efficienti. Ipotizzando che il conflitto finisca, i colli di bottiglia nelle supply chains (le catene di fornitura, ndr) potrebbero ritirarsi in fretta e anche l’inflazione – in gran parte eterodiretta a causa degli shock contemporanei su energia, commodities agro-alimentari e logistica – potrebbe rientrare. Sono dunque pessimista sul breve periodo – perché tutti i fattori stanno giocando per far crescere l’inflazione – ma le previsioni potrebbero mutare in fretta.

L’Italia in questo quadro quale situazione si trova ad affrontare?
Io vedo una grande occasione per il nostro paese. Noi veniamo da trent’anni di sbornia da globalizzazione, ne abbiamo sofferto il mito e nel frattempo abbiamo sfruttato l’abbattimento del costo del lavoro per delocalizzare le nostre catene del valore fuori dai confini nazionali. Come sostiene il famoso economista Dani Rodrik è impossibile avere contemporaneamente democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale, e ora guerra e pandemia, spingendo le supply chains verso la regionalizzazione, ci consegnano la possibilità di ricostruire le nostre catene del valore riportando le produzioni in Italia, puntando sull’alto tasso di innovazione di cui sono ricche le nostre piccole e medie imprese, oltre che la nostra micro-industria. In poche parole la tempesta perfetta guerra-pandemia può trasformarsi in un’opportunità per la nostra industria manifatturiera. Se ci porteremo su questa strada saremo in buona compagnia: gli Stati Uniti di Biden stanno già investendo in questo senso per rendersi autonomi su farmaci, chip e batterie elettriche. Per fare altrettanto però dobbiamo renderci autonomi sul fronte energetico perché (come altri paesi europei) siamo sempre stati dipendenti da paesi ad alta instabilità geopolitica e basso livello di democrazia: oltre alla Russia, anche il Nord Africa. Puntare sulle energie rinnovabili in questa prospettiva è fondamentale. E, nel nostro piccolo, lo avevamo fatto diversificando le fonti energetiche e investendo nella produzione idro-elettrica. Non è colpa nostra se purtroppo il surriscaldamento globale non ci ha favorito prosciugando i bacini.

Fino a qualche anno fa in molti invocavano l’inflazione. Ora è arrivata con una rapidità inaspettata e duratura. Sulle due sponde dell’oceano però le ricette per affrontarla sembrano diverse. Chi ha ragione: la Fed americana o la Bce gestione Lagarde?
L’inflazione – per non dire la stagflazione: alta inflazione e mancata crescita del Pil – è certamente più attuale negli Stati Uniti dove la sua ripresa è partita parecchio prima che nell’Eurozona. Tanto è vero che la Fed ha già annunciato l’imminente avvio della normalizzazione degli attivi presenti nel suo bilancio e ha già avviato il rialzo dei tassi d’interesse. In Europa invece la Lagarde sta optando per un approccio più morbido: serve una politica monetaria meno restrittiva per affrontare le conseguenze della guerra. La differenza sostanziale fra Stati Uniti ed Europa è che i primi sono autosufficienti dal punto di vista energetico e dunque l’inflazione potrebbe rientrare prima e la Fed, in questo caso, potrebbe rivedere presto la sua politica monetaria, ricalibrandola in modo espansivo.