È una corsa contro il tempo. Arriveranno prima i processi a Donald Trump o la sua vittoria nelle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024, che lo renderebbe praticamente intoccabile? Questa è la domanda chiave attorno a cui ruoterà la politica americana nei prossimi 18 mesi, la questione da cui dipenderà il ciclo elettorale che si è aperto con l’annuncio della ricandidatura a presidente di Joe Biden, qualche giorno fa.

UNA STAGIONE politica aperta a tutte le ipotesi: mercoledì l’ex vicepresidente Mike Pence è stato costretto a testimoniare davanti al gran giurì che potrebbe rinviare a giudizio il presidente fellone in tempi brevi. Pence doveva rispondere, sotto giuramento, alla domanda: «È stato tutto organizzato da Trump per restare al potere?» La risposta non poteva che essere «sì», visto che le indagini condotte l’anno scorso da una commissione della Camera avevano ampiamente dimostrato che l’allora presidente aveva ideato una strategia semilegale per rovesciare l’esito delle elezioni, favorevole ai democratici. Ma la testimonianza di Pence, che Trump aveva cercato in ogni modo di impedire, fornisce un tassello chiave all’inchiesta del procuratore speciale Jack Smith sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021.

Benché avesse ottenuto sette milioni di voti meno di Biden la speranza di Trump era di ripetere il risultato del 2016, ottenendo una maggioranza nel collegio elettorale composto da 538 delegati da cui dipende l’elezione vera e propria. Questo non si è realizzato ma era possibile: Biden ha ottenuto il pacchetto di grandi elettori di Arizona, Georgia, Wisconsin grazie a margini molto ristretti: circa 11.000 voti in Arizona, altrettanti in Georgia, 20.000 in Wisconsin. Se Trump avesse ottenuto i grandi elettori di quegli stati, 37 in tutto, il risultato nel collegio elettorale sarebbe stato di parità, 269 a 269, il che avrebbe condotto a un’elezione del presidente non più nel collegio elettorale ma alla Camera dei rappresentanti, dove i repubblicani sono in maggioranza.

QUESTO SPIEGA i frenetici (e illegali) tentativi di Trump di cambiare il risultato facendo pressioni su Pence, che presiedeva la seduta di certificazione dei voti, perché non accettasse, con qualche pretesto, i voti dei grandi elettori di quei tre stati. Pence, come sappiamo, rifiutò e Trump si rifugiò nella Grande Bugia delle elezioni truccate attraverso la manipolazione delle macchine per il voto elettronico.

Ora Trump deve affrontare varie incriminazioni, che forse diventeranno processi se il Procuratore generale Merrick Garland avrà il coraggio politico di agire: avrebbe in realtà potuto procedere da tempo ma temeva di favorire i repubblicani nelle elezioni di medio termine del novembre scorso. Purtroppo i democratici hanno paura anche della loro ombra e Garland si è deciso molto tardivamente ad affidare l’inchiesta a un procuratore speciale: questo è avvenuto solo dopo che la commissione della Camera aveva prodotto migliaia di pagine di documenti che dimostravano come l’assalto al Congresso non fosse stato un evento casuale bensì parte di una cospirazione per mantenere Trump al potere con qualsiasi mezzo.

ORA LE INDAGINI che coinvolgono Trump sono parecchie. Prima di tutto ci sono i processi in corso: quello iniziato dal procuratore di New York per i pagamenti a una pornostar utilizzando i fondi della sua campagna elettorale, nel 2016. Poi ci sono le indagini per truffa e falso in bilancio nelle operazioni immobiliari degli ultimi 30 anni, sempre a New York. E ancora: il furto dei documenti segreti che Trump non ha consegnato agli archivi alla fine del suo mandato ma ha invece nascosto nel suo garage a Mar-a-Lago, dove sono stati ritrovati nel corso di una perquisizione, e l’indagine sui tentativi di alterare il risultato elettorale in Georgia. Infine, il boccone più grosso: le imputazioni per tradimento che potrebbero nascere dalle indagini sul 6 gennaio. Qualsiasi altro candidato con una fedina penale di questo tipo sarebbe destinato a un penitenziario federale, non alla Casa Bianca, ma Trump, come ha dimostrato negli ultimi sette anni non è un candidato qualsiasi: decine di milioni di americani lo voteranno comunque nel 2024, anche se fosse nelle patrie galere.