«Il direttore della prigione mi scelse e mi portò in una casa di Tripoli. Dovrai lavorare per quest’uomo, disse».

MARYAM È NIGERIANA e ha solo diciannove anni, ma è già la seconda volta che viene ingannata e venduta. È una vittima di tratta, una delle migliaia di ragazzine minorenni o appena maggiorenni che in Africa ogni anno vengono strappate alle loro famiglie e trasportate verso l’Europa da organizzazioni criminali.

Il fenomeno è ben noto: la promessa di un lavoro normale, qualche volta (ma non sempre) riti voodoo, il viaggio assieme ad accompagnatori che si rivelano presto aguzzini, violenze sessuali, l’imbarco su un gommone dalla Libia all’Italia, la definitiva riduzione in schiavitù sui marciapiedi europei.

Ma stavolta il sistema si è inceppato: l’imbarcazione su cui Maryam viaggiava assieme alla sua madame nigeriana e ad altre vittime di tratta è stata catturata da una motovedetta libica e tutti i passeggeri sono finiti in un campo per migranti, uno di quelli che l’Italia dal 2017 finanzia con i bandi dell’Aics. È lì che è stata ingannata e venduta la seconda volta.

SECONDO LE TESTIMONIANZE dei rifugiati, sono gli stessi direttori dei campi libici a gestire direttamente la vendita di schiavi a cittadini libici, che li utilizzano per ogni genere di lavoro. Già nell’estate 2018 i rifugiati di Tarek al Mattar riuscirono a denunciare alla stampa internazionale la sparizione dal campo di 20 uomini, 65 donne e diversi bambini.

«Sono stati venduti come schiavi da Wajdey al Montaser, il direttore», gridarono durante una rivolta repressa con frustate e lacrimogeni. Ciò che più sconvolgeva era che Tarek al Mattar, in quel periodo, pareva sotto il controllo di osservatori indipendenti internazionali. Avevano accesso al campo Oim, Unhcr, le ong italiane che realizzavano i progetti dei bandi Aics e l’ambasciatore italiano in Libia Giuseppe Perrone, che lo visitò il 20 luglio.

Che fine avevano fatto le persone sparite dal campo? Maryam era una di loro. Oggi è al sicuro e ci racconta che l’allora direttore del campo la consegnò a un cittadino libico. Finì in una casa di Tripoli, a lavorare come sua domestica: orari terribili, cibo scarso e stipendio pari a zero. Ma non solo. L’uomo la violentava, continuamente. L’aveva comprata, la considerava sua proprietà.

ANCHE SAMIRA, più di recente, ha subito la stessa sorte: venduta dalle guardie del campo di Zawiya, dove era finita dopo la cattura in mare, a un uomo libico. Il prezzo? Circa 1.500 euro. Stremata dal lavoro di domestica senza sosta e senza stipendio, annichilita dalle violenze notturne, ha trovato la forza di fuggire, approfittando della distrazione del suo aguzzino. La tratta non si è fermata a Tripoli. Il sistema dei lager del Governo di accordo nazionale libico l’ha inglobata e criminali libici in divisa si sono sostituiti alla mafia nigeriana nello sfruttamento sessuale e nella riduzione schiavitù delle ragazze migranti.

NEI LAGER LIBICI finanziati da progetti del governo italiano la vendita e la sottomissione ai lavori forzati dei rifugiati è all’ordine del giorno. Le testimonianze sono centinaia. Gli uomini vengono venduti come schiavi soldato o operai edili forzati. Accadeva a Tarek al Mattar fino al 2018 (anno della sua chiusura), a Tajoura fino al 2019 (anno del bombardamento del campo), accade a Triq al Sikka ancora oggi.

Le donne vengono vendute come prostitute alle numerose connection houses di Tripoli e, sempre più spesso, come domestiche/prostitute a privati cittadini libici, perché pagano di più e perché nel sistema libico nulla si spreca: una schiava sessuale tra una violenza e l’altra viene fatta lavorare come donna delle pulizie. Sono tantissime le case di Tripoli in cui la domestica è una prigioniera, semplicemente acquistata, come un elettrodomestico.

Non solo da uomini single: a volte la “padrona” è una rispettabile moglie del ceto medio tripolitano e tutta la famiglia usufruisce a turno dei servizi, anche sessuali, della loro schiava. «Mi avevano sequestrato il telefono. Mi davano pochissimo cibo. La notte lui mi violentava. Per non farmi fuggire mi rinchiudevano in soffitta – ci racconta un’altra ragazza, Fatima – Ma dopo mesi di inferno, un giorno tutta la famiglia uscì dimenticando di chiudere la porta a chiave».

L’EUROPA, con molteplici decreti legge, protocolli e convenzioni ratificate da tutti gli Stati membri, a parole si è sempre impegnata nella prevenzione, la repressione della tratta di esseri umani e nella protezione delle vittime. Ma nella pratica, secondo Maryam, Samira, Fatima e altre donne con le quali abbiamo parlato, non si pone il problema della riduzione in schiavitù delle migranti catturate dalla cosiddetta guardia costiera libica.

«Unhcr e Oim qui a Tripoli ci considerano semplicemente migranti economiche, nigeriane non degne di protezione internazionale» è la denuncia di queste donne. E, in effetti, nessuna di loro ha il numero di identificazione dell’Unhcr, quello che potrebbe farle accedere alle ambite liste di evacuazione dalla Libia.

Giulia Crescini, avvocatessa dell’Asgi, ci spiega che per le donne provenienti dalla Nigeria e da altri stati dell’Africa occidentale le agenzie dell’Onuin Libia prevedono solo il rimpatrio nei loro paesi d’origine. Soluzione certamente non risolutiva, perché ciò le riconsegna alla tratta. Negando loro lo status di rifugiate, le si espone a un altissimo rischio di retrafficking.

Molte donne accettano il rimpatrio, ma non è mai un consenso libero, perché l’alternativa è permanere in uno stato di schiavitù fisica e sessuale in Libia, alla mercé di criminali locali in divisa o senza. Per questi motivi, Asgi ha già impugnato i finanziamenti per i rimpatri delle vittime di tratta che il ministero degli Affari esteri italiano ha assegnato all’Oim e sta iniziando ad assistere legalmente donne nigeriane rimpatriate.

In Italia si tenta di fermare la tratta individuando le vittime agli sbarchi e nei centri di accoglienza. Ma ciò non è sempre possibile, fa notare la stessa Oim in un suo rapporto del 2017, perché spesso le donne viaggiano assieme ai loro aguzzini, che si fingono loro parenti o amici.

Ce lo conferma oggi anche Gianfranco Della Valle del Numero Verde Anti Tratta, un bel servizio istituito dal ministero dell’Interno italiano grazie al quale le donne possono ricevere protezione e accoglienza, partecipare a progetti, trovare lavoro, cominciare una nuova vita sicura e libera.

NON SI CAPISCE, quindi, perché l’Europa non identifichi e protegga in Libia le vittime di tratta. Sarebbe certamente più semplice evacuarle da sole, senza i loro aguzzini, e strapparle una volta per tutte alle organizzazioni criminali.