Non si sa nemmeno il nome, chi fosse, cosa pensasse o volesse. Forse speranze, certo paure, o viceversa. Magari il sogno di un futuro in un mondo lontano e migliore, o soltanto un passato insopportabile, quel Pakistan della fame dal quale andarsene, con le tasche vuote ma gli occhi fiduciosi. Chissà. Intercettato (meglio sarebbe dire “catturato”) non si sa bene dove oppure, si dice, proveniente da qualche altro centro, con documenti scarsi: è dunque un clandestino, per legge.

Pare che il Giudice di Pace di Gorizia abbia stabilito tre mesi di permanenza al Cpr, poi il rapido trasbordo a Gradisca, camerata della zona blu, pare, dove mettono i nuovi arrivati e vengono tolti i cellulari. Mura invalicabili, cancelli, guardie armate. Visita di rito nell’ambulatorio medico, «sembrava tranquillo e in buona salute», nessun segno di rabbia o depressione, dicono dal Cpr.

L’ambulatorio medico. Quello che c’è e non c’è, quello che come unica dotazione ha uno stetoscopio, quello che se svieni dai dolori ti manda in ospedale a Gorizia. Voleva essere rimpatriato? Non risulta. Aveva commesso reati? Non risulta. Mercoledì sera ha aspettato che i compagni si allontanassero per fumare, che uscissero su quella che molti chiamano “vasca” ed è la parte esterna della camerata tra le sbarre, una gabbia insomma. Ha tolto il coprimaterasso, lo ha ben arrotolato e con quella corda si è impiccato.

Sconcerto, ma gran voglia di rassicurare. La Garante comunale per i diritti delle persone recluse, Giovanna Corbatto, chiede non si speculi, una sola ora di permanenza al Cpr non permette di tirare in ballo le condizioni della struttura per motivare quel gesto estremo. Anche se la struttura, come aveva detto Mauro Palma – Garante nazionale – invece di essere un luogo di sosta amministrativo ha tutte le caratteristiche di un carcere di massima sicurezza. Duecento telecamere ma quando succede qualcosa di grave non vedono nulla. Quando muore qualcuno o c’è una protesta più chiassosa del solito, il primo pensiero è sequestrare i cellulari a tutti, sia mai che arrivi all’esterno qualche registrazione.

Per i quattro migranti morti in questi tre anni non c’è stata una spiegazione, niente. Solo le urla di migranti da dietro i muri, qualche chiamata di nascosto con il terrore delle ritorsioni. E se qualcuno ha raccolto quelle grida, se ha manifestato, se addirittura ha pubblica le foto di pavimenti e sbarre insanguinate, c’è il foglio di via, la perquisizione, il fermo di polizia.
Cpr è l’acronimo di Centro per i Rimpatri, il decreto legislativo 286/1998 li definisce «luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione». Non è un carcere, non ci sono reati da scontare, c’è soltanto la mancanza di documenti idonei alla permanenza in Italia. Dovrebbe essere così ma così non è: è un carcere chiuso, impenetrabile, niente si deve sapere. Una morte legata a «fantasmi del passato» dice Corbatto, parlarne non è il caso, «solo rispettoso silenzio». Sembra più consapevole la sindaca di Gradisca, Linda Tomasinsig: «Contesto l’esistenza di questa struttura, luogo in cui le condizioni della detenzione portano spesso alla disperazione. Lì non è tutelato nessuno».

Cibo scadente, psicofarmaci e abbandono. Razzismo, spesso. Un carcere dove si aspetta non si sa bene cosa e tempi dilatati, oggi a Gradisca domani a Torino. Ma non si deve strumentalizzare, dicono, e allora non si deve cercare di sapere, di capire. Avviene così che questo pachistano senza nome, se non è stato il primo, difficilmente sarà l’ultimo a morire nel Cpr.