Migliaia a Roma per Afrin: «Oggi i curdi vivono un nuovo Sykes-Picot»
Corteo nazionale Lungo un percorso militarizzato marciano Uiki, Comunità Curda, Rete Kurdistan e decine di associazioni e individui. Per chiedere la liberazione di Ocalan e per denunciare le connivenze europee con la Turchia
Corteo nazionale Lungo un percorso militarizzato marciano Uiki, Comunità Curda, Rete Kurdistan e decine di associazioni e individui. Per chiedere la liberazione di Ocalan e per denunciare le connivenze europee con la Turchia
Nel giorno in cui il direttore dell’ospedale di Afrin, il dottor Mohammad, accusa la Turchia di aver usato armi chimiche contro il cantone curdo siriano, a Roma in 5mila si ritrovavano in Piazza dell’Esquilino per marciare in solidarietà con Rojava e chiedere la liberazione di Abdullah Ocalan.
Sono trascorsi esattamente 19 anni da quando il leader del Pkk (a cui l’Italia rifiutò l’asilo) fu catturato dai servizi di Ankara in Kenya. Da allora vive in isolamento nell’isola-prigione di Imrali. Lungo un percorso militarizzato, blindati, file di poliziotti e anche un idrante (e con gli attivisti da Firenze che denunciavano online di essere stati bloccati in autostrada), hanno marciato Uiki, Rete Kurdistan, Comunità Curda e decine di associazioni.
Aprono il corteo le donne curde vestite negli abiti tradizionali, tra le bandiere del Pkk, delle Ypg/Ypj, il volto di Ocalan e un fantoccio di Erdogan.
«Siamo qui oggi per due motivi: per denunciare il complotto internazionale che 19 anni fa fece imprigionare il nostro presidente Ocalan e per dare voce a chi resiste in Turchia e a Rojava, da più di 25 giorni sotto i bombardamenti turchi», dice al manifesto un rappresentante del centro Ararat, che chiede di non essere citato.
«Afrin ha accolto in questi anni più di 300mila profughi. Non solo dopo il 2011 e lo scoppio della guerra in Siria, ma anche prima: tanti curdi fuggiti dalla Turchia si sono rifugiati qui. Oggi stiamo vivendo un secondo Sykes-Picot, 100 anni dopo: l’obiettivo è disegnare nuovi confini, una nuova mappa del Medio Oriente, sulla base degli accordi di paesi stranieri che proteggono gli interessi delle industrie delle armi e del petrolio. E se nel 1920 divisero il Kurdistan in quattro parti, ora provano a separare Afrin, creando cinque Kurdistan diversi. Devono sottomettere il popolo kurdo per interessi energetici, ma anche per l’acqua del Tigri e dell’Eufrate. Non è un caso che la Turchia stia costruendo nuove dighe o che quelle esistenti vengano affidate a compagnie straniere, anche italiane, come a Mosul».
Che gli interessi italiani in Turchia fossero consistenti lo si è visto due settimane fa quando Erdogan, in visita a Roma, ha trascorso un’intera serata con decine di aziende nostrane: «Gli elicotteri usati per bombardare i curdi sono italiani – continua – E sono tantissime le aziende italiane presenti in Turchia o che fanno affari lì tramite appalti, sfruttando il lavoro locale: operai turchi e curdi che lavorano in aziende italiane in Turchia vengono pagati 300 euro al mese per 8 ore al giorno; il governo turco acquista un chilo di nocciole dai contadini per 8 lire turche, 1,5 euro, e poi le rivende alla Ferrero a 6-7 euro Chi è responsabile di questo sfruttamento?».
Un altro grido che si alza dalla piazza romana e che svela i fili che permettono ad Ankara di agire indisturbata.
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