Potrebbero essere proprio le conversazioni scambiate nel centro di espulsione di Hatay il motivo del prolungarsi della detenzione di Daniele Del Grande in Turchia. In mezzo a profughi di origine siriana e irachena nel centro situato vicino al confine siriano si trovavano infatti anche persone fermate in occasione di un comizio tenuto nella regione dal presidente Recep Tayyip Erdogan. Sono i giorni immediatamente prima del voto sul referendum costituzionale che il 16 aprile assegna poteri pressoché illimitati al presidente turco ed è facile immaginare come l’attenzione dei servizi sia massima. Nel centro sono così richiuse anche persone che probabilmente non sono neanche oppositori di Erdogan, come un professore universitario siriano con cui Del Grande parla.

Si tratta solo di un’ipotesi, perché di certo nei 14 giorni trascorsi dal giornalista lucchese in due centri di espulsione turchi non c’è ancora proprio niente. Fatto sta che dopo i pochi giorni passati ad Hatay, Del Grande viene trasferito nel centro di Mugla e le cose per lui cambiano in peggio.

E’ lo stesso Del Grande a raccontarlo in una conferenza stampa convocata insieme alla compagna Alexandra D’Onofrio, al presidente della commissione Diritti umani del Senato Luigi Manconi e all’avvocato Alessandra Ballerini. «E’ stata una situazione di sospensione del diritto», spiega. «Né io né i miei avvocati abbiamo avuto fino a oggi accesso al mio fascicolo e quindi non so dirvi il perché del mio fermo».

Tutto comincia lo scorso 9 aprile. Del Grande è in Turchia da appena 24 ore e sta parlando in un ristorante di Reyhanli con una persona che pensa possa essergli utile per il suo lavoro, un libro sulla guerra in Siria e la nascita dell’Isis. «Improvvisamente entrano otto uomini, sono i borghese e ci mostrano il tesserino della polizia. Ci dicono di seguirli», racconta Del Grande. «Veniamo fatti salire su due macchine senza nessuna insegna». Del Grande e la sua fonte vengono portati nel centro di espulsione di Hatay. Si tratta di una ex scuola riadattata a punto di raccolta di profughi che attraversano il confine siriano. Quando il giornalista ci arriva ci sono almeno 150 persone, intere famiglie siriane ma anche irachene. «All’inizio non sembrava si trattasse di una cosa grave, erano gli stessi agenti che cercavano di sdrammatizzare», prosegue il racconto. Nei primi interrogatori gli viene chiesto conto del suo lavoro, dei contatti siriani e dell’eventuale intenzione di entrare in Siria. Tutte domande alle quali il giornalista si rifiuta di rispondere senza la presenza di un avvocato. «Ho solo smentito di voler entrare in Siria, perché non era nei miei programmi», dice.

Le cose cambiano il mercoledì successivo, quando Del Grande viene trasferito dal centro di Hatay a quello di Mugla. Un viaggio durato dieci ore e compiuto in macchina e di notte. «Lì ho capito che qualcosa era cambiato, le parole rassicuranti erano finite», spiega.

Mugla è un’ex prigione trasformata anch’essa in centro di espulsione dei profughi. Le celle non sono più aperte, come ad Hatay, e Del Grande viene messo in isolamento. Il giorno dopo «dò in escandescenze e finalmente il direttore mi permette di telefonare ad Alexandra». Solo a quel punto la situazione in cui trova diventa finalmente pubblica.«Per cinque giorni le autorità italiane sono state tenute all’oscuro di tutti i particolari relativi a Del Grande: sia la località nella quale era trattenuto, sia gli interrogatori ai quali veniva sottoposto», interviene il senatore Manconi. Interrogatori che si svolgono in parte in turco in parte in arabo, lingua quest’ultima che Del Grande parla. «Mi dicevano che le domande arrivavano da Ankara, ma non so da chi», prosegue il giornalista.

Il resto è noto. Lo sciopero della fame poi la visita del console italiano a Smirne, Luigi Iannuzzi e del legale turco fino a domenica, quando a Del Grande viene detto che sarà liberato. «Non trattatemi con un eroe», chiede il giornalista. «A me è andata bene ma in Turchia ci sono 174 giornalisti in prigione. Io sono stato il numero 175. Faccio un appello ad Ankara perché liberi anche tutti gli altri».