Ufficialmente, la piazza centrale del grande campus dell’Universidad Nacional di Bogotà, in Colombia, si chiama piazza Santander, ma per tutti è piazza Che Guevara, dominata dall’icona del Che sulla parete dell’edificio principale. Oggi, 10 ottobre, è nereggiante di ombrelli. È uno dei punti di concentramento della grande manifestazione nazionale delle università contro i tagli all’istruzione. Si annuncia una giornata storica, scendono in strada tutti, gli studenti, i docenti, gli impiegati, persino i rettori delle università pubbliche; partecipano anche quelli delle università private (a Bogotà ce n’è una dietro ogni angolo di strada, da quelle qualificatissime e carissime alle cosiddette università-garage, buchi che vendono illusioni a pagamento). Anche per loro è questione di cittadinanza.

Quando ci mettiamo in cammino e smette di piovere, i ponti che attraversano il vasto stradone sono nereggianti di gente e addobbati di striscioni. A mano a mano confluiscono cortei da altre parti della città. Il corteo sembra infinito. Non ci sono bandiere o segnali di organizzazioni politiche. Gli studenti sfilano con le insegne dei dipartimenti e delle discipline – architettura porta a spalla un palazzo di cartone (gli hanno letteralmente demolito l’edificio della facoltà, non hanno più una sede); design brandisce enormi matite (e mi vengono in mente le «matite spezzate» degli studenti argentini durante la dittatura); il gruppo degli studenti indigeni in abiti tradizionali fa risuonare la conchiglia rituale ed espone cartelli che dicono in due lingue «vogliamo studiare»; gli studenti di storia gridano «dov’è la storia? La storia è nella strada!».

 

Lo slogan dominante, scandito e cantato, è «Somos estudiantes, queremos estudiar, para cambiar la sociedad»: lo studio e la scuola come diritto civile e arma di lotta. Penso alla grande canzone di Violeta Parra: «Me gustan los estudiantes, jardín de las alegrías, uccelli libertari come gli elementi, lievito del pane che uscirà dal forno per nutrire i poveri…». Un cartello: «Un paese differente non si fa con gente indifferente»: giocano con le parole, uno striscione evoca il presidente (di destra) Ivan Duque: «Con Duque non hay quien se eduque», con Dunque non si educa nessuno. Passiamo davanti a un grande palazzo in costruzione, dalle finestre gli operai e le operaie, da tutti i piani, salutano col pugno chiuso e bandiere improvvisate. Una compagna accanto a me commenta: sanno che stiamo manifestando perché anche i loro figli possano studiare. Un’altra: ma forse i loro figli sono già qui, sono nell’università pubblica e lottano per poterci restare.

Siamo partiti alle dieci, arriviamo alla piazza centrale che sono le quattro e ancora si vedono a perdita d’occhio pezzi di corteo che cercano di entrare. Parla dal palco Gustavo Pedro, ex guerrigliero, già sindaco di Bogotà, candidato di sinistra alla presidenza (8 milioni di voti), e non tutti sono d’accordo, non gli va che un politico, sia pure di sinistra e rispettato, metta il cappello sulla loro giornata. Alla fine, lo diranno anche i giornali il giorno dopo, siamo 400mila, la più grande manifestazione di cui si abbia memoria.

La cosa più faticosa delle manifestazioni non è il corteo, ma rifarsi a piedi la strada del ritorno. Oggi però è bello anche questo, sembra una giornata di festa, incroci dappertutto facce sorridenti di ragazze e ragazzi avvolti negli striscioni e nelle bandiere o con ancora un cartello in mano. Bogotà è trasformata, gli studenti hanno dato una dimostrazione.

Nella facoltà occupata hanno deciso che, nonostante la giornata di mobilitazione, il mio seminario sul progetto del Calendario Civile si tenga lo stesso perché è anche questo una forma di lotta. E, in una Colombia che sta ancora faticando a tirarsi fuori da decenni di conflitto, il calendario civile ricomincia da qui.

 

Un segmento del corteo che ha attraversato la città (foto Afp)

 

 

 

A metà dei 400 chilometri di curve, salite e camion fra Bogotà e Medellín, ci fermiamo per una visita alla Hacienda Nápoles. Adesso è un parco nazionale statale, ma era la tenuta di Pablo Escobar, il feroce e carismatico imperatore del narcotraffico, che nel suo delirio di grandezza ne aveva fatto una specie di Africa privata, con addobbi kitsch e un incredibile zoo di animali esotici. L’ossessivo altoparlante che spiega le attrazioni racconta che una coppia di ippopotami portati qui di contrabbando (ma come si fa a introdurre di contrabbando due ippopotami? Nel sottofondo della valigia? Già questo è un segno dell’onnipotenza dei narcos) si sono riprodotti e adesso c’è una mandria di quaranta aggressivi ippopotami allo stato brado che di notte escono dalla tenuta e vanno a scorrazzare nelle strade dei villaggi vicini. Ci sono cartelli e un arrangiato piccolo museo della memoria che proclamano la vittoria dello stato sul crimine; ma sull’arco dell’ingresso campeggia una copia del piccolo aereo con cui Escobar compì il suo primo volo portando la droga negli Stati uniti. L’originale ce l’ha la polizia; ma il fatto che i gestori statali del parco abbiano fatto una copia e la tengano lì rivela che anche loro sanno che tanta gente viene qui attratta anche dall’aura ambigua di Pablo Escobar che ancora segna il luogo.

A Medellín, Università Nazionale occupata, tende e amache appoggiate sul cemento della cafeteria. Un busto ricorda Camilo Torres, il prete guerrigliero: insegnava qui. Un grande striscione: «Arte en resistencia». Una ragazza mi spiega che lottano contro le distorsioni di genere nell’istituzione; un’altra, che viene da un villaggio poco fuori, mi racconta della necessità di cambiare, modernizzare e democratizzare l’agricoltura. Un collettivo di studenti di arte dell’altra università pubblica, l’Universidad de Antioquia, fa un concerto con classici di tutti i generi della musica popolare colombiana. E insistono anche loro sull’arte e la cultura come diritti e come strumenti di lotta. Una scritta sul muro, in questa città insanguinata dal narcotraffico, dalla repressione, dalla guerra civile: meno armi, più libri.

La mattina dopo, un quartiere popolare, la Comuna 13. È una giornata di ricordo: il 16 ottobre 2002, l’«Operazione Orion» condotta fianco a fianco da esercito e paramilitari aggredì il quartiere con elicotteri, bombe, carri armati: la scusa era colpire la guerriglia, di fatto fu un massacro indiscriminato. Mi colpisce la data, gli racconto del nostro 16 ottobre, la retata nazista nel ghetto di Roma, e si crea un vincolo emozionale fortissimo. La signora Rosa Amalia Tejado Alvarez racconta il massacro – «uccidere non va mai bene, ma quel giorno hanno ammazzato di tutto, bambini, vecchi, gente che non c’entrava niente»: non era tanto una missione militare quanto un atto terroristico in cui un nuovo governo di destra annunciava al paese le proprie intenzioni. Continua Rosa: «A ottobre nell’operazione Orion mi è morto un figlio, a marzo ne hanno ucciso un altro, poi nei mesi dopo mia nuora, un cugino… a ottobre è morto mio padre. Lui è morto di morte naturale». Fra la repressione e il narcotraffico, la morte naturale è l’eccezione.

Organizzano l’Associazione del Giovani Cristiani (mutazione della YMCA!) e un gruppo straordinario che si chiama Partido de la Doñas – non un’organizzazione politica ma un nucleo di solidarietà, sostegno reciproco, rivendicazione della memoria, difesa del quartiere. Un loro manifesto dice: «Non si politicizza il dolore». Sono di tutte le generazioni, ma mi colpiscono le più anziane, addobbate a festa con magliette rosse e viola, cappelli e nastri multicolori. Quando parte la musica, ballano scatenate e senza ritegno; ma capisci benissimo che all’occorrenza sarebbero capaci di qualunque cosa.

Adesso qui è una festa di strada, piena di orgoglio e allegria, si mangia, si parla e si balla come in certe feste dell’Unità dei tempi andati, ma mi dicono che basta salire di poche centinaia di metri e siamo in territorio di bande armate di narcotrafficanti. La mattina, Rosendo Espinosa, musicista parrandero, mi ha cantato una sua canzone che ne parla: «Io non capisco con che criterio ragionano quelli che fanno la guerra, sanno benissimo che se vinci vai in galera e se perdi vai al cimitero». La giornata finisce con Duván Calvo, giovane cantautore locale, e una sua canzone: «Sogno il giorno in cui potremo condividere sogni e vita, e dire semplicemente: sono colombiano».

Torno a Bogotà. La mattina, giorno di festa nazionale, mi svegliano percussioni e slogan sotto la finestra. Le università sono ancora occupate e in sciopero, penso che sia un altro corteo studentesco, scendo in strada, e invece è una sfilata capeggiata da tamburi, maschere, clown, artisti di strada. I cartelli dicono «Bogotà ciudad caminable»: camminano per riprendersi la città, almeno in questo giorno. Anche camminare è un atto politico, e poi sono quasi tutti giovani, forse ci sono gli stessi che hanno sfilato qualche giorno fa. Fra gli slogan ce n’è uno che sarebbe andato bene anche allora: «Tenemos, tenemos, tenemos cultura».