Uno dei momenti di verità sulla situazione economica italiana presenti nel manifesto ideologico enunciato ieri dalla presidente del consiglio Giorgia Meloni è stato quando ha ammesso che le prossime misure su bollette e carburanti, contro il caro-energia e il caro vita, «ci costringeranno a rinviare alcuni provvedimenti». Questo significa che la riforma della «riforma Fornero» delle pensioni sarà rinviata, come già avvenuto in questi anni, e si continuerà con le toppe dell’«Ape sociale», dell’«Opzione donna» (della vagheggiata «Opzione Uomo»), o delle varie «Quote» (41-42 ecc).

LE FONDAMENTALI ristrettezze di bilancio, e i vincoli esterni imposti anche dal «Pnrr», impediscono di capire oggi in quali proporzioni, e a quale costo, il governo manterrà la promessa di un taglio graduale di almeno cinque punti del cuneo in favore di imprese e lavoratori. E, se anche trovasse le risorse a partire dall’imminente legge finanziaria, l’impatto sui salari sarebbe modesto come ha osservato il segretario della Cgil Maurizio Landini secondo il quale «serve una vera riforma fiscale che aumenti il netto in busta paga. L’idea che si riduce il cuneo per darne un po’ alle imprese un po’ ai lavoratori è sbagliata». Senza contare il caos che può scatenarsi in una maggioranza divisa sul modo per trasferire altra ricchezza al ceto medio affluente rispetto a quello impoverito.

UN ESEMPIO È l’annuncio di una «flat tax» per le partite Iva dagli attuali 65 mila euro a 100 mila euro di fatturato e l’introduzione della tassa piatta sull’incremento di reddito rispetto al massimo raggiunto nel triennio precedente. Sono misure che premiano proporzionalmente i medio-grandi professionisti e le attività imprenditoriali a danno delle partite Iva lavoratrici il cui reddito medio varia in maggioranza tra gli 8 mila e i 30 mila euro. Sul classismo fiscale, tipico delle destre liberiste-conservatrici, è prevedibile un conflitto nella maggioranza. La Lega sostiene anche una flat tax al 15%. In una situazione simile si trovò Reagan tra il 1981-2: con una doppia recessione tentò di introdurre una flat tax. Fu un disastro.

IL «PRAGMATISMO» evocato ieri da Meloni è fondato su una serie di ingiunzioni paradossali. Sulla crescita, ad esempio. Davanti alla chiara comprensione degli effetti del crollo del Pil nel 2023 (dall’attuale 3,2% a una stima persino negativa a meno 0,2%) la presidente del Consiglio si è contraddetta evocando «una crescita strutturale e duratura» necessaria per ridurre il debito pubblico (al 147% del Pil). Ma questa crescita di sicuro non ci sarà. Anzi, siamo avviati verso una recessione in un paese dove il Pil, come i salari, è cresciuto meno negli ultimi venti. In queste condizioni il governo sarebbe costretto a rinunciare anche alla contenuta distribuzione fiscale al contrario prospettata dalle «flat tax», versione Fratelli d’Italia, come alle misure per famiglie e imprese.
SUL LAVORO emerge un’altra plateale contraddizione. Per Meloni la forza lavoro non ha soggettività né autonomia, ed è un’appendice delle imprese. L’idea è confermata dal cambio del nome del ministero dello «sviluppo economico» in uno delle «imprese e del made in Italy». «La ricchezza – ha detto Meloni – la creano le imprese con i loro lavoratori, non lo Stato tramite editto o decreto. E allora il nostro motto sarà “non disturbare chi vuole fare”». Dopo trent’anni di berlusconismo, questa affermazione reaganian-thatcheriana conferma un principio: «Stato minimo, Capitale massimo». È la declinazione «liberista» e conservatrice dell’agenda politica dominante.

QUESTA IDEA ha il rovescio nella visione moralistica, imprenditoriale e individualistica della povertà. Per Meloni il «povero» è responsabile della sua povertà. Il «fallimento» del cosiddetto «reddito di cittadinanza» non è stato causato solo da chi lo ha concepito (Lega e Cinque Stelle), ma è anche «una sconfitta per chi era in grado di fare la sua parte per l’Italia, oltre che per se stesso e per la sua famiglia» «Se una persona è in uno stato di povertà e difficoltà – ha aggiunto Meloni – deve ambire a diventare benestante e questo si fa con il lavoro».

IL POVERO, in altre parole, deve diventare «imprenditore di se stesso». È una professione di fede neoliberale che conferma l’organicità della destra postfascista al capitalismo neoliberale. È il principio che ispirerà la modifica – e non l’«abolizione» – del «reddito di cittadinanza». Ciò avverrebbe potenziando le tecniche premio-punitive del Workfare già stabilite dal governo «Conte 1». Meloni vorrebbe revocare il sussidio a chi non accoglie una proposta lavoro. Il problema è che le proposte lavoro non ci sono, che il lavoro non c’è oppure che i lavori sono sottopagati o in nero. Un altro paradosso dell’ideologia di un lavoro astratto coltivata anche, ma non solo, dalla maggioranza dell’estrema destra postfascista.