Un corpo bruciato e un uomo ultimato con un proiettile alla testa a Ciudad Juárez, nove morti e quattro feriti da arma da fuoco nel Sinaloa, quattro cadaveri con affianco dei “narco-messaggi” ad Acapulco, seconda città più violenta al mondo dopo Caracas.

IL 2017 DEL MESSICO si chiude come il peggiore degli ultimi vent’anni. Secondo il ministero degli Interni da gennaio a novembre le vittime di omicidio doloso sono state 26.573. Ottobre ha battuto il record con 2.764 omicidi, ma la media s’è mantenuta oltre i 2.000 al mese per tutto l’anno, che si chiuderà con oltre 28.000 morti. Quattro stati su trentadue, cioè Baja California, Guerrero, Estado de México e Veracruz, concentrano il 30% dei casi, ma nessuna regione può ritenersi immune da una violenza ormai strutturale.

Le cifre superano quelle del 2011, l’anno più terribile della «guerra al narcotraffico» all’epoca del presidente Felipe Calderón, quando si registrarono 27.199 morti ammazzati e un tasso di omicidi pari a 24 ogni 100.000 abitanti. Secondo l’Istituto di Statistica Nazionale in undici anni di lotta militarizzata ai cartelli della droga ci sono stati 240.000 omicidi e un numero di desaparecidos impressionante, quasi 35.000 persone.

È DIFFICILE stabilire con esattezza quanti di questi delitti d’alto impatto siano realmente attribuibili al conflitto interno e quanti siano, invece, legati ad altri fattori, ma secondo gli stessi funzionari dei governi di Calderón e di Peña circa il 70% delle morti violente nel paese sarebbero imputabili alla criminalità organizzata o alle forze di polizia e militari dispiegate sul territorio. D’altronde fino al 2007, prima che la strategia della narcoguerra fosse pienamente implementata, i tassi d’omicidio erano ai minimi storici, intorno a 8 ogni 100.000 abitanti, comparabili per esempio con quelli statunitensi.

Secondo Mike Vigil, ex agente Dea (l’agenzia antidroga statunitense) ed esperto antimafia, le ragioni che spiegano l’impennata negli omicidi sono varie ma le principali sono «la frammentazione dei grandi cartelli in cellule più piccole e violente che lottano per il controllo delle zone di produzione delle coltivazioni illecite, ma anche la corruzione delle corporazioni di polizia».

Con un tweet l’8 gennaio 2016 il presidente Enrique Peña Nieto celebrava la terza ricattura del capo del cartello di Sinaloa, alias «El Chapo», che sei mesi prima aveva messo in ridicolo il governo con la sua fuga da una prigione di massima sicurezza e con la trasmissione di un’intervista agli attori Sean Penn e Kate del Castillo. «Missione compiuta: ce l’abbiamo. Voglio informare i messicani che Joaquín Guzmán è stato arrestato».

Nel gennaio scorso il boss è stato estradato negli Usa, ma la sua organizzazione resta grazie alla leadership dei suoi figli, Iván Archivaldo e Alfredo, di suo fratello Aureliano e del suo vecchio socio Ismael El Mayo Zambada.

IL CASO DI «EL CHAPO» è il più noto, ma sono 107 su 122 i criminali messicani più pericolosi che sono stati eliminati o arrestati in questi anni. Ciononostante la violenza e il narcotraffico non sono diminuiti, dunque «i capi non sono così importanti per le operazioni come s’aspettava il governo, le organizzazioni si dividono ma non spariscono e sperimentano una lotta mortale finché un nuovo boss, o due, non rimpiazzano il precedente», si legge in un recente rapporto del Servizio di ricerca del Congresso (Crs) americano.

«Non esistono più i grandi gruppi piramidali, com’era il cartello di Medellín o Cali in Colombia, oggi i capi hanno capito che per sopravvivere non solo è necessario internazionalizzarsi e associarsi con altri gruppi ma anche dividersi in cellule», commenta al manifesto Ricardo Ravelo, giornalista messicano esperto di sicurezza e narcos.

LA RICETTA DI PEÑA, basata sulla criminalizzazione del consumo di droghe e sull’uso delle forze armate, legittimato dalla recente approvazione di una Legge che amplia le funzioni dei militari nella pubblica sicurezza, ha peggiorato la situazione. «Di fronte a questo panorama, in cui è evidente l’auge della delinquenza organizzata, il governo Peña non ha fatto niente» e, continua Ravelo, «senza un progetto chiaro per frenare la violenza il paese va verso una mafiocrazia in cui la criminalità può fare di tutto, imporre candidati, finanziare campagne elettorali, fare affari col potere e godere di piena salute e impunità».