L’assassinio di Jamal Khashoggi è stato premeditato, anche se ancora non si conosce il mandante. A dirlo è il pubblico ministero di Riyadh, dopo che una task force turco-saudita ha fornito le prove e ora sta interrogando i sospetti.

Se inizialmente le autorità di Riyadh avevano negato di essere al corrente di quanto accaduto al giornalista sparito il 2 ottobre, avevano poi dichiarato fosse stato vittima di una rissa. Dopodiché la Saudi Gazette aveva scaricato la colpa sul Qatar: quello di Kashoggi era un delitto orchestrato per gettare fango sulla casa regnante saudita.

Tutte bugie. A far emergere la verità è stato il presidente turco Erdogan: le microspie nel consolato saudita a Istanbul avrebbero registrato i momenti in cui Kashoggi è stato fatto a pezzi. Erdogan avrebbe fatto ascoltare l’audio (sevizie e urla) alla direttrice della Cia Gina Haspel in visita in Turchia all’inizio della settimana.

Negare l’evidenza non è più possibile. Mbs si sarà anche tolto lo sfizio di far tagliare con la sega elettrica uno dei suoi nemici, ma il conto sarà più alto del previsto. Con il linguaggio di oggi, diremmo errore strategico. A inizio Ottocento si sarebbe detto che non si trattava solo di un crimine ma di un errore politico. Così il ministro francese Joseph Fouché definì l’esecuzione di Luigi Antonio di Borbone, meglio noto con il titolo di duca d’Enghien, voluta da Napoleone Bonaparte. L’aristocratico respinse le accuse, inventate, ma fu comunque messo a morte nel castello di Vincennes il 21 marzo 1804. Un assassinio con conseguenze negative per l’immagine di Napoleone in Europa.

La crisi sollevata con il delitto Khashoggi avrà conseguenze tali che il giovane principe ereditario potrebbe non riuscire a portare avanti il programma Vision 2030. «Non si tratta di riforme, perché il termine non trova applicazione nel contesto dell’Arabia saudita. In quella società, le riforme di una persona sono l’eresia di un’altra. Lo stesso Mbs dice di non essere un riformista», precisa Thomas Lippman del Middle East Institute di Washington.

In ogni caso, quelle individuate in Vision 2030 sono iniziative indispensabili per rilanciare l’economia e combattere povertà e disoccupazione. A pagare il prezzo della crisi saranno tanti giovani. Le statistiche ufficiali dicono che 10 milioni di sauditi hanno meno di 35 anni: se non trovano lavoro restano tagliati fuori dal consumismo dilagante e perdono fiducia nella legittimità del sistema.

Alla sfiducia dei sudditi sauditi si aggiungono le perplessità della comunità internazionale: sarà più difficile attirare investimenti stranieri, diversificare l’economia dipendente in maniera eccessiva dal petrolio, attirare i migliori laureati nel settore privato soffocato dal predominio del pubblico che offre salari più alti e chiede un impegno decisamente minore.

«Senza riforme, si rompe il contratto sociale della famiglia regnante con i sudditi. E anche con le donne, perché tra le riforme di Mbs c’è la possibilità di guidare e quindi di renderle attive nel mercato del lavoro», commenta la giornalista finlandese Liisa Liimatainen, autrice del saggio L’Arabia Saudita. Uno Stato islamico contro e donne e i diritti (Castelvecchi, 2016).

«A parte qualche gesto mediatico da parte dell’amministrazione Trump, nulla di fondamentale cambierà nelle relazioni tra Washington e Riyadh», osserva pessimista M. R. Djalili, professore emerito al Graduate Institute di Ginevra. Le relazioni diplomatiche risalgono al 1932, la dinastia regnante dei Saud ha dimostrato di essere un partner nella lotta al terrorismo e come contraltare all’Iran, al punto da accettare di allearsi e collaborare con Israele.

Ma le ripercussioni economiche di questa crisi non vanno sottovalutate da Usa e Europa: l’Arabia saudita e alcuni paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc) sono stati recentemente inclusi nell’Emerging Market Bond Index di JP Morgan e nel Russel Global Equity Index del FTSE. In altri termini, nei fondi delle banche occidentali troviamo investimenti nei mercati emergenti, compresi quelli negli strumenti di debito sauditi e nella borsa Tadawul di Riyadh.

Percentuali di tutto rilievo tenendo conto che in questi quattro anni nell’indice di JP Morgan il debito sovrano dei paesi Gcc è passato da 25 a 144 miliardi di dollari. Titoli in discesa per il rafforzamento del dollaro ma anche per le molteplici tensioni politiche regionali.