Ieri erano passati mille giorni dal referendum del 24 giugno 2016, oggi l’ora Brexit è letteralmente dietro l’angolo, alla fine della settimana prossima, il 29 marzo. Con una grande manifestazione londinese programmata questo sabato dai fautori di un secondo referendum – il cosiddetto “voto del popolo”, per il quale continuano a non esserci i numeri in parlamento – la commedia Brexit continua a essere recitata a soggetto.

Schiacciata fra lo spettacolare niet dello speaker Bercow a un terzo voto sul suo documento sconfitto già due volte e la reiterata indisponibilità di Bruxelles a rinegoziare gli aspetti che rendono lo stesso documento indigeribile alle molteplici intolleranze dello stomaco parlamentare, a Theresa May non resta che asserragliarsi ulteriormente nel suo accordo, quando ormai anche il sostegno del suo consiglio dei ministri viene meno. Lo sbocco logico di una simile impasse era dunque l’ampiamente preconizzata richiesta di un’estensione dell’articolo 50, in buona sostanza un rinvio dell’uscita britannica, ma fino al 30 giugno, non oltre. Donald Tusk ha detto «forse sì», ma solo se il parlamento sostiene l’accordo della discordia. E siamo da capo.

Le fratture fra governo e parlamento e fra la stessa premier e il suo governo sono ormai ramificate. May è ormai in rotta totale con il parlamento, che ha attaccato duramente ieri durante il prime minister’s question: «Questa Camera si è soffermata con troppa autoindulgenza sull’Europa» ha detto, mentre dall’aula giungevano grida di dimissioni.

La premier non vuole assolutamente che l’estensione vada oltre giugno per via delle elezioni europee, evidentemente percepite come un’umiliante catastrofe a tutto tondo: «Da prima ministra, non potrei considerare un ritardo che vada oltre il 30 giugno», dichiarazione letta come un’embrionale minaccia di dimissioni. Le ha replicato un Jeremy Corbyn insolitamente esasperato: «Questa è una crisi nazionale su vasta scala» ha tuonato il leader dell’opposizione, prima che l’aula si chiudesse in un dibattito d’emergenza richiesto da Labour per discutere la decisione di May di inviare formalmente la lettera a Tusk senza metterne a partito i deputati. Se è per questo, non ne aveva fatto menzione nemmeno al suo consiglio dei ministri. Corbyn a sua volta si recherà a Bruxelles giovedì per dei colloqui con Michel Barnier e alcuni leader dei ventisette.

Gutta cavat lapidem dicevano i latini, la goccia scava la roccia. May non può far altro che riproporre una terza volta l’accordo, prigioniera della speranza che le alternative più estreme, il salto nel vuoto della Brexit hard o addirittura la revoca in toto dell’uscita stessa, spingano gli “opposti estremisti” verso il centro, occupato finora del suo deal. Da mesi la sua strategia è tutta qui: né più né meno di quanto è lecito attendersi dalla sua pedestre visione politica. Il problema non è certo la riottosità dello speaker, che ha fatto il suo intervento politico travestendolo da costituzionale, ma il fatto che il motore decisionale del parlamento è del tutto grippato. E che se la premier non riesce a portare gli estremisti al centro toccherà a lei sposare uno o l’altro degli estremi. In questo senso, Brexit non è altro che il veicolo della polarizzazione sociale e politica di quest’Europa. La Gran Bretagna, ironicamente, non è mai stata europea come adesso.