Panneau rouge, pannello rosso. Non era nulla di più per Henri Matisse quel grande quadro concluso nel dicembre 1911. «L’ensamble du tableau est rouge de Venise», scrive al suo collezionista e mecenate Sergueï Chtchoukine, per la cui residenza moscovita la tela era stata pensata. Solo alla fine della lettera, su tutto il resto molto dettagliata, si accorge di una dimenticanza: «Vous ai-je dit que le tableau représentait mon atelier?».

Per Matisse, alla ricerca in quella cruciale stagione di un «assoluto decorativo», il soggetto rappresentava un fattore del tutto incidentale. A quel quadro lasciato orfano di nome aveva lavorato nel grande atelier che si era fatto costruire secondo i suoi desiderata nel giardino della casa di Issy-les-Moulineaux, pochi chilometri a sud di Parigi. Un atelier a pianta perfettamente quadrata di dieci metri per dieci. Per affrontare la tela si era posizionato tenendosi alle spalle la grande vetrata rivolta verso nord. Davanti aveva lo status quo dello studio, precisamente l’angolo in direzione sud-est.

Pochi mesi prima aveva dipinto un’altra tela, in prospettiva leggermente spostata verso destra: era L’Atelier rose, subito acquisito da Chtchoukine e già spedito a Mosca. Opera bellissima, però ancora inquadrabile come veduta di interno, seppur risucchiata in un processo di estrema semplificazione. Con la nuova tela Matisse sente di doversi sottrarre a quell’ultimo appiglio radicalizzando il suo sguardo. Dopo aver dipinto ancora con scarni accenni naturalistici l’angolo dello studio, decide di affondare tutta la tela in quel «rouge de Venise» a cui fa accenno nella lettera al suo collezionista.

Gli ocra, i gialli, i blu vengono sommersi dalla coltre rossa, intercettabili ancora dalla lente dei restauratori; i mobili, la sedia, il tavolo, il pendolo restano come volumi appiattiti e ridotti a un esile tracciato. Matisse, in questo caso in continuità con L’Atelier rose, lascia in vista sulla nuova tela i quadri appesi alle pareti dello studio, che quindi forano il muro rosso che li circonda. È un montaggio apparentemente casuale che in realtà finisce con il diventare un vero discorso sulla propria pittura.

In tutto sono undici le opere rappresentate, dieci delle quali sono state eccezionalmente radunate in occasione della mostra, già presentata a New York e Copenaghen, che la Fondation Vuitton (fino al 9 settembre, a cura di Ann Temkin e Dorthe Aagsen) ha dedicato a quello che, dopo un incerto balletto di titoli, è diventato per tutti L’Atelier rouge. Il quadro che manca è il primo della sequenza appoggiato a terra alla parete sinistra: il Grand nu, tentativo di inglobare un corpo femminile dentro una grammatica radicalmente decorativa, allargata fino a invadere la cornice.

Il quadro non c’è perché Matisse, dopo averlo tenuto sempre con sé, quasi in attesa di riuscire a risolverlo, chiese alla sua morte di distruggerlo. La posizione della modella richiama quella del Nu à l’écharpe blanche, appeso in alto sulla parete sud: è opera di appena due anni prima, ma a Matisse doveva sembrare molto più lontano, tanto da sentire il bisogno di sciogliere il nucleo così fisico del corpo dell’originale in un alone rosato e impalpabile che vola a uscire dal limite della tela.

Interessante il segnale che l’artista lancia mettendo in posa, appoggiata a un gruppo di tele rivolte verso la parete, una piccola opera del 1898: è uno degli oltre cinquanta quadri dipinti durante il felice periodo trascorso in Corsica, in luna di miele con la moglie Amélie. Quei mesi avevano rappresentato il vero big bang della sua pittura. «È allora che ho sentito crescere in me la passione per il colore. Non lavoravo che per me. Ero salvo», avrebbe confidato molti anni dopo. Per critici e qualche amico era «pittura che digrignava i denti». Emblematico il fatto che in questa selezione personale allestita nell’Atelier rosso la Corsica disarcioni la stagione fauve: un’assenza che ha il sapore di una sconfessione.

Proseguendo, troviamo la piccola tela Cyclamen del 1911 e quella monumentale Le Luxe(II), del 1907-’08, sulla destra, nella stessa posizione in cui appaiono in L’Atelier rose. Ma questa seconda opera, così enigmatica, qui è sottoposta a una traumatica alterazione cromatica: la pella chiara e luminosa delle tre donne, dipinte a tempera nell’originale, si muta nel rosso denso dell’ambiente, tanto da sembrare dipinte sul muro. Un altro segnale silenzioso viene lanciato dalla tela appoggiata alla cassettiera: sono i Bagneurs del 1907, quasi un devoto omaggio a Cézanne, «notre père a tous»; nel 1899 Matisse aveva comperato per 1200 franchi una sua tela con analogo. La tenne con sé per quarant’anni, donandola infine al Petit Palais parigino, con la raccomandazione che fosse appesa in una posizione di prestigio.

Matisse tenne con sé per lungo tempo anche il Panneau rouge. Chtchoukine non lo aveva voluto spiegando che preferiva quadri di Matisse con personaggi: evidentemente anche lui, che pur aveva difeso l’estremismo di tanti quadri dell’artista appesi nella casa moscovita e sottoposti a critiche pesanti degli ambienti artistici, si era ritratto davanti alla radicalità di questa opera.

Esposto a Londra da Roger Fry nel 1912, con il titolo L’Atelier rouge-in situ, e all’Armory Show di New York l’anno successivo, era rientrato a Issy-les-Moulineaux carico di un fardello di critiche pesantemente negative quando non derisorie. Era seguito un periodo di ibernazione dell’opera, interrotto nel 1927 in modo del tutto imprevedibile con l’ acquisto da parte di David Tennant, titolare del Gargoyle Club, uno dei locali più in di Londra. Per anni sarebbe rimasto appeso nel contesto un po’ improbabile del grande salone tutto specchi e cristalli del club londinese, restando in un cono d’ombra per critica e artisti.

Nel 1945 l’opera varcava di nuovo l’oceano, acquisita da un mercante di origini svizzere, Georges Fréderic Keller. Nel 1948 tornava ad apparire in una mostra alla Bignou Gallery di New York con il titolo L’Atelier de l’artiste. Per il critico di «Art news» si trattava di «un’opera gigantesca, capolavoro dell’esposizione».

A questo punto si accendono i fari del MoMA di New York: la richiesta economica di Keller era molto alta e c’era la concorrenza di Albert Barnes, a cui le risorse certo non mancavano. «Per amor di Dio, compriamola» scriveva il vicepresidente del museo James Thrall Soby in una lettera inviata al Comitato dei sostenitori del museo. Ci volle il contributo economico di Olga Guggenheim per sbloccare la situazione: il 6 aprile 1949, con il titolo definitivo L’Atelier rouge, l’opera entrava al MoMA. La sua azione per aprire territori nuovi alla pittura era solo all’inizio…