Per chiunque si interessi di cinema contemporaneo, l’emergere di una nuova ondata di autori argentini è un’evidenza ineludibile. Non meno evidente è lo stato di difficoltà vissuto oggi da quel cinema, sotto attacco diretto da parte del governo argentino tanto da spingere i cineasti a prendere pubblicamente la parola in sua difesa, come hanno fatto Santiago Mitre a gennaio alla Camera dei Deputati o Mariano Llinás al Senato appena qualche giorno fa.

Matías Piñeiro, nato nel 1982 e tra i più talentuosi esponenti del cinema argentino contemporaneo, è protagonista di una retrospettiva completa che si svolgerà a cavallo tra due festival, il Sicilia Queer di Palermo e il Lago Film Fest di Revine Lago. Dopo aver a lungo lavorato su un’originale rivisitazione latinoamericana delle commedie di Shakespeare, il suo nuovo lungometraggio apre una relazione diretta con l’Italia, chiamando in causa Cesare Pavese e Petrarca. Qui un estratto della conversazione pubblicata sul catalogo del festival siciliano.

Il tuo ultimo film «tú me abrasas» offre molte possibilità per immaginare una nuova relazione tra cinema e letteratura. Perché hai deciso di lavorare su Cesare Pavese e Saffo? Come sei arrivato a collegarli ad Alfonsina Storni, Natalia Ginzburg e le altre?
Credo di esserne stato attratto a causa della resistenza del testo: i Dialoghi con Leucò mi sembravano difficili, non mi interessavano. Mi ci ero avvicinato grazie a Straub e Huillet, e avevo conosciuto Pavese tramite Antonioni. Poi ho letto il libro, non l’ho finito e ci sono tornato molti anni dopo, rimanendo particolarmente affascinato dalla figura di Saffo. Agustina Muñoz mi ha suggerito di leggere le sue poesie tradotte da Anne Carson, e sono stato fortemente attratto dal capitolo Schiuma d’onda di Pavese, che ha scatenato una reazione a catena di connessioni. La poetessa argentina Alfonsina Storni appare a causa del fatto che anche lei, come Saffo, è morta in mare – il gesto del suicidio è molto forte nel film, così come nel testo. Natalia Ginzburg è un po’ come un antidoto, per non romanticizzare la figura del suicida e per trattare con delicatezza un amico, quale Pavese era per lei. Sono figure che emergono dunque dalla tensione tra desiderio e morte. Il film mette insieme un collage di modulazioni sullo stesso tema.

Con il montatore, Gerard Borràs, ci dicevamo che avremmo potuto continuare a montarlo per sempre, ma c’è un momento in cui bisogna fermarsi ed è stato bello trovare il punto in cui il film sembrava completarsi da solo. Ma ogni film è come una forma che si espande, un film ne richiama un altro, e io mi vedo in una posizione simile a quando ho finito Rosalinda e avevo l’intuizione di dover continuare a lavorare con dei ruoli femminili tratti dalle commedie di Shakespeare. Sento che nel caso di tú me abrasas è necessario continuare con questa forma dei dialoghi, ed è per questo che sono interessato a Petrarca e ai suoi Rimedi contro la buona e la cattiva sorte. Credo si stia aprendo la possibilità di un ciclo di dialoghi.

Pier Paolo Pasolini diceva che il cinema di prosa ha al centro il personaggio, mentre il cinema di poesia la forma del film. Se guardiamo due film come «Viola» (del 2012) e «tú me abrasas» (del 2024) possiamo sentire che c’è qualcosa in comune, ma notiamo comunque un grande cambiamento nel tuo cinema. Come hai scelto di restituire la poesia del testo allo spettatore?
Robert Bresson nelle sue Note sul cinematografo scrive da qualche parte che non bisogna inseguire la poesia: essa emergerà da sé dall’incontro delle immagini. Era una citazione che avevo molto presente mentre giravo. All’inizio non mi aspettavo di realizzare un film su una poeta, ma sentivo la necessità di contrastare l’energia di Pavese. Stavo lavorando con un testo drammatico e la poesia è emersa dall’interno del testo per romperlo, piegarlo e aprirlo in modo diverso. Era un po’ una sfida. Volevo mostrare la poesia affinché le persone potessero leggerla, fare dello schermo una pagina da leggere – mi sembrava una cosa provocatoria. L’idea di adattare una poesia è assurda, ma mi sono detto che bisognava provarci e in modo divertente, senza sovrascrivere, senza caricare troppo di significato, e producendo una serie di variazioni. Da qui nasce il gioco, l’idea di memorizzare, il tentativo di essere letterali per fare un film che permettesse alle persone che escono dalla sala di conoscere una poesia semplicemente nominando il film (tu mi bruci è un frammento di Saffo).

tú me abrásas è già un modo per introdurre la poesia di Saffo al popolo del cinema. Sentivo che la poesia potesse essere qualcosa che possiamo avere tra le mani, che è per noi, intorno a noi e per la quale non abbiamo bisogno di esagerare. È solo l’esperienza di leggere quelle parole e vedere come ci si connette soggettivamente ad esse. L’approccio è stato molto letterale e poi si è trattato di giocare con le variazioni e di diventare di nuovo molto diretti. In questo modo si creava un momento di pace, un’esperienza che non è così tipica, quella della lettura al cinema. Il film è dunque un adattamento del capitolo di Cesare Pavese, ma anche delle sue note a piè di pagina. Saffo appare come uno dei versi di queste note a piè di pagina. È questo elemento che rende il film più ibrido.

Cosa ci dici della situazione odierna in Argentina con il presidente Milei?
Come altri registi – penso a quelli di El Pampero Cine – non hai particolari relazioni con il sistema industriale e con l’INCAA (Istituto Nazionale di Cinema e Arti Audiovisive), eppure siete molto preoccupati da quel che sta accadendo.

Ne siamo direttamente influenzati: anche se non lavoriamo in quel sistema, tutte le persone con cui lavoriamo operano in quel sistema. È come un batterio, è tutto mescolato. I sistemi devono essere simbiotici. È ciò che questo governo, che ha una mentalità molto ristretta e distruttiva, non capisce: la vita nasce dalla simbiosi. Dalla mescolanza delle differenze, non dalla standardizzazione o dall’unicità di una voce. È stupido non capire che abbiamo bisogno di una molteplicità di modi di produrre e quello che il governo sta facendo è in realtà restringere il campo. Avremmo bisogno di qualcuno pronto ad accettare altre micro-ondate di produzione cinematografica come i metodi del Pampero Cine. Credo che si tratti di una sorta di maltrattamento psicologico delle persone, affinché ci si arrenda. Ci vogliono più rozzi, più ignoranti e vogliono che combattiamo tra di noi. Oggi non c’è più il senso dell’ascolto: sono io contro di te. È anche per questo che mi interessa l’idea dei dialoghi, l’idea di come si possa creare una miscela di opinioni e possibilità che non siano semplicemente l’una sopra l’altra, una che annienta l’altra.

Il tuo cinema non è certo sprovvisto di una dimensione politica, ma non si può certamente definire come il cinema di un attivista.
I miei film non sono militanti, ma hanno un approccio che invita al dialogo, all’ambiguità, alla diversità, al paradosso, all’ascolto, al cambiamento. Invitano ad accogliere il cambiamento, ad abbracciare la differenza. Penso che il modo in cui viviamo le nostre vite sia politico, in ogni piccolo passo. L’idea della mescolanza, della traduzione, dell’appropriarsi di Shakespeare e proporlo in spagnolo, ampliarlo sfidando lo spettatore. Cosa significa quando un film non ci piace? Che non riesci a dialogarci. Bisognerebbe cercare di essere in grado di dialogare.

Penso che la dimensione politica del mio cinema risieda nelle scelte e nei gesti di ogni singolo film. Credo che ci sia una modalità di fare film e di creare un rapporto intimo tra il film e lo spettatore che ha il fine di smuoverlo e di renderlo consapevole di come viviamo e sperimentiamo la vita. E mi sembra che questo abbia molto a che fare con la politica.

* Estratto dal catalogo del Sicilia Queer film fest, traduzione di Giorgia Inzerillo, Morena Faveri