Blonde ovvero la vita e la morte di Marilyn Monroe, nata Norma Jeane, icona sublime dell’immaginario serializzata all’infinito. Un film attesissimo, ottimo lancio per accendere i riflettori dell’industria mondiale, dei media, delle folle sul Lido che sembra specie quest’anno essere una preoccupazione molto presente. Giusto, anche se in un concorso pieno di Netflix – questo sarà in streaming tra qualche giorno, altra questione che forse sarebbe il momento di discutere seriamente nell’agenda politica – sarebbe stato bello lasciare qualche crepa in più, qualcosa che ricordi che il cinema non è solo la «macchina spettacolare» della piattaforma – come accade coi film di Wiseman o di Alice Diop – e che anche nelle grosse produzioni – vedi il magnifico Bones and All di Guadagnino – c’è possibilità di invenzione e di bellezza (cinematografica).

Perché il cinema esiste (resiste?) malgrado tutto, basta uscire dalla competizione e avventurarsi nei territori di altre sezioni, la Settimana della Critica curata da Beatrice Fiorentino o le Giornate degli Autori con la direzione artistica di Gaia Furrer, e anche nella selezione ufficiale tra gli Orizzonti – o nel Fuori concorso – ve ne sono di forti, inventivi, che dichiarano un movimento dell’immaginario nel mondo.

Il regista, il neozelandese Andrew Dominik, al Lido in concorso nel 2007 aveva fatto vincere la Coppa Volpi a Brad Pitt con The Assassination of Jesse James by the Coward Robert Ford, tornando nel 2016 con One More Time With Feeling dopo il passaggio a Cannes di Killing Them Softly (2012), si è ispirato con molta libertà come ha dichiarato – sua anche la sceneggiatura – al romanzo omonimo di Joyce Carol Oates (edito in Italia per la Nave di Teseo) in cui la scrittrice americana frammenta la vita di Marilyn in molte vite – bambina sperduta, adolescente solitaria, esplosiva bellezza, playmate, amante, attrice planetaria, persona insicura che raccontano anche l’America dell’epoca.

Diciamolo subito: Blonde è un’operazione abietta – e nulla ne giustifica la presenza in concorso – in cui il regista si arroga la presunzione di riscrivere l’immaginario funzionalmente alle esigenze di oggi

DICIAMOLO SUBITO: Blonde è un’operazione abietta – e nulla ne giustifica la presenza in concorso – in cui il regista si arroga la presunzione di riscrivere l’immaginario funzionalmente alle esigenze di oggi, tra «nuovi codici» hollywoodiani – «un film femminista» viene definito nel materiale stampa – e il neoconservatorismo più becero di feti fluttuanti nel senso di colpa della donna per gli aborti.

L’America di quegli anni Cinquanta e Sessanta sono bocche di maschi infoiatissimi pronti a sbranare, mentre si condanna l’amore di Norma Jeane/Marilyn con due giovani amici, amanti, complici Gemelli. Il sogno del matrimonio instillato in ogni ragazza si infrange in botte, gli italo-americani di spaghetti il presidente democratico – Bob Kennedy che parla dei suoi scandali sessuali al telefono mentre lei gli fa un pompino alla Gola profonda con tanto di (citato) missile in erezione – scena che è valsa il divieto ai 17 per la prima volta su Netflix.

La Marilyn di Dominik è una vittima in tutto e per tutto compresa se stessa, nel cinema, nella vita, nel complotto che forse la uccise

C’È SENZ’ALTRO qualcuno che con molti equilibrismi vi troverà con esaltazione un’esposizione «provocatoria»della società dello spettacolo (lasciamo fuori Debord però o almeno rivediamoci Ghezzi negli Ultimi giorni dell’umanità) a duplice e infinito capovolgimento, o una rinascita di Monroe contro il suo stesso mito.

Non è così, nonostante gli sforzi della protagonista, Ana de Armas presente per le quasi tre ore di film in ogni inquadratura e sottoposta a una recitazione di versetti, isterie, tremolii, lacrime, smorfie da ragazza divorata dal cannibalismo della celebrità, in lotta contro la parte di sé venerata in tutto il mondo, Marilyn. Che l’ha inghiottita nel nuovo nome e nel frullatore della celebrità, in un’immagine nella quale non si riconosce, che la spaventa persino quando la vede trionfare sui cartelloni e sui grattacieli d’America.

Chi è invece Norma Jean? Chiusa da piccola in orfanotrofio dopo il ricovero della madre in un manicomio con diagnosi di schizofrenia, è cresciuta col fantasma del padre nella testa, doveva essere uno famoso, ricco, che l’aveva amata ma abbandonata per colpa sua. Una figlia non desiderata la piccola Norma Jean, che esplode da ragazza in un corpo magnifico e nella fantasia di diventare attrice.

Siamo a Los Angeles, cos’altro fare per una ragazza? Norma finisce sui calendari, pin up sensuale e innocente coi seni nudi, passa da un’audizione all’altra sbattuta – sui tappeti dai produttori che ovviamente si deve scopare per una particina malpagata. Cerca il padre in ogni uomo – Daddy Daddy chiama i suoi uomini – finisce schiantata contro vecchi bavosi che anelano il suo corpo, la sua vocina è dolce, l’amore più scanzonato è quello indocile e malvisto coi due coetanei.

Si sposa, divorzia, Di Maggio la picchia, Miller (Adrien Brody) si meraviglia perché lei è colta e ha letto Cecov. Ma Marilyn poteva esistere solo con l’ironia e l’intelligenza della donna che era, col suo dolore e con la sua fragilità. Dominik invece la cancella imprigionandola in quella schizofrenia che è la patina della celebrità l’appiattisce in un altro stereotipo di luoghi comuni.

LA MARILYN di Dominik è una vittima in tutto e per tutto compresa se stessa, nel cinema, nella vita, nel complotto che forse la uccise – si disse che non fu suicidio ma Cia e Fbi per coprire il presidente – e questa rappresentazione commiserevole la uccide di nuovo.

Perché ogni suo personaggio non è solo quello sorridente e «sciocco» della «bionda col bel culo» che si afferma a fronte dei tormenti di Norma Jeane: ha una complessità provocatoria e dirompente nell’immagine/immaginario di allora e di sempre.

Dominik lo azzera come spiana volgarmente ogni cosa: la migliore sintesi del nostro presente.