Le violenze a Roma, culminate nell’attacco alla sede della CGIl, sono andate ben oltre la paura di vaccinarsi e l’ideologia anti-vax. Rappresentano in parte una degenerazione del movimento anti-vax (da sempre verbalmente aggressivo), ma il fenomeno a cui hanno dato configurazione è più complesso. Esso è alimentato da altre correnti, capaci di appropriarsi di forme di protesta già esistenti e di sprigionare attraverso di loro la propria violenza.

Queste correnti (l’insofferenza nei confronti delle regole comuni, la rabbia nei confronti del senso della misura percepito come schiavitù, la frustrazione causata dalla paura di perdere il proprio posto nel mondo) convergono verso la loro peggiore espressione: il progressivo rigetto, insieme depressivo e paranoico, del prossimo, ancor prima che dello “straniero” o del “migrante”. L’altro vicino (l’amante, il parente, l’amico, il collega, il concittadino) diventa un’estraneo e la terrificante estraneità di sé che, di rimbalzo, ricade sul rigettante, viene scaricata in termini di radicale ostilità nei confronti di chiunque viene percepito come sufficientemente distante e nemico.

Per comprendere questo fenomeno, che rivela la vera natura del razzismo, è utile una storia che viene dagli Stati Uniti, raccontata dal N.Y Times. Nel 6 Giugno 2020, alcuni giorni dopo la morte di George Floyd (nero ucciso da un poliziotto bianco del Minnesota), Andrea Kane, la prima sovrintendente nera del distretto scolastico di Queen Anne’s Country, nel Maryland, ha scritto ai genitori dei suoi 7.700 allievi: “Il razzismo è vivo nel nostro paese, nel nostro stato, nel nostro distretto, nelle nostre scuole”.

La lettera ha scatenato un putiferio tra i genitori, bianchi in modo predominante e in maggioranza sostenitori di Trump. Attualmente negli Stati Uniti c’è un fiorire di iniziative di genitori e politici bianchi che attaccano la discussione sul razzismo nelle scuole e soprattutto sul suo radicamento nei libri di storia, nella legge, nelle istituzioni.

Un gruppo Facebook di genitori di Queen Anne’s Country raccolti sotto il nome di “Patrioti di Ken Island” ha attaccato la sovrintendente, rea, nella loro prospettiva, di aver leso il carattere apolitico della scuola, e ha preteso che, scaduto il suo contratto, se ne andasse. Nella sua lettera Kane aveva ribadito che “le vite dei neri contano” (black lives matter): questa era la principale accusa. Il post iniziale contro di lei recitava: “I bambini devono sapere che gli individui che sono morti nelle mani della polizia erano criminali, non eroi! I nostri bambini non saranno indottrinati dall’opinione politica di chiunque nella scuola ed essi MAI devono sentire che la loro pelle bianca fa di loro dei colpevoli di schiavitù o di razzismo!”

Il gruppo dei patrioti è diventato sempre più folto e alla fine ha ottenuto il suo scopo. Kane se n’è andata. Il razzismo che non si professa tale, ma anzi trasforma il discriminato in discriminatore, il razzismo che, colpevole, colpevolizza, è molto diffuso e vivendo sott’acqua resta sempre vivo e vegeto, pronto a emergere e a colpire.

Che cosa ha in comune con gli scalmanati imitatori del fascismo che hanno sconvolto la capitale? Il rifiuto di far parte di una comunità in cui contano le vite di tutti, dove la cura per la vita (non solo materiale) dell’altro è la condizione della cura per la propria vita. I patrioti di Ken Island, gli assalitori del Congresso americano e i “marci su Roma” si raggruppano sotto le insegne di un’arrabbiata indifferenza, espellono con la rabbia la paura della morte dei sentimenti che li invade internamente.

Vogliono essere liberi dal senso di responsabilità nei confronti degli altri. Creano aggregazioni identitarie fondate su comportamenti di rigetto, senza sentimenti e pensiero. Identità senza contenuto. Il razzismo è rifiuto radicale della convivenza civile.