E’ l’inizio dell’anno e in Mali non piove ormai da quattro mesi. Per la sabbia sahariana trasportata dal vento e l’inquinamento che impregna l’aria della capitale, a Bamako si fa quasi fatica a respirare. I casi di malattie respiratorie salgono esponenzialmente e a risentirne di più sono i numerosi bambini che trascorrono le loro giornate sui cosiddetti goudrons, i due assi stradali principali. Loro sono i figli degli sfollati interni.

DAL COLPO DI STATO DEL 2012, LE REGIONI centro-settentrionali del paese vivono in un clima di tensione che non accenna a diminuire: gruppi terroristici battezzati da al-Qaïda o Stato Islamico, bande armate, comunità in lotta fra di loro e missioni internazionali che dovrebbero riportare la pace stanno causando un numero immenso di vittime e profughi.

INCONTRIAMO BAKARI, SUONATORE DI KAMALE NGONI, in un quartiere periferico della capitale. Ha appena fatto ritorno da Mopti, una delle regioni più instabili del Mali. «Mentre mi recavo al villaggio dove vive la mia famiglia, l’autobus sul quale viaggiavo è stato assalito. Erano le tre di mattina, ci hanno rubato soldi e telefoni. Non so se fossero delinquenti o jihadisti, ma ho avuto molta paura». Episodi di questo tipo riempiono i bollettini settimanali dei rapporti sulla sicurezza nazionale; capita di continuo che persone in viaggio verso l’interno del paese vengano braccate e minacciate.

«A CAUSA DI QUESTI CRIMINALI HO GIA’ PERSO tre fratelli, ma cosa posso fare?», si chiede Bakari, che attualmente avrebbe dovuto essere in Europa per una tournée cancellata all’ultimo a causa della seconda ondata di Covid-19.

«Di quanto sta accadendo in Europa non se ne parla molto, fatto sta che gli effetti collaterali di questa guerra silenziosa riguardano anche noi e arrivano via mare». Secondo le stime di Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, ben il 41% della popolazione maliana è toccato da una crisi umanitaria che sta lasciando dietro di sé impatti profondi, sul piano psico-fisico innanzitutto. Come se non bastassero i conflitti, nel paese sub-sahariano c’è un ulteriore fattore che sta contribuendo ad alzare il numero di sfollati. È il cambiamento climatico, che in Mali si traduce in desertificazione, ondate di siccità ed alluvioni.

«QUANDO ERO PICCOLO LE PIOGGE VENIVANO DA MAGGIO a settembre; maggio era chiamato il mese del divertimento, perché le scuole chiudevano per l’acqua che entrava nelle aule rendendole inagibili, ma oggi la stagione umida dura sì e no tre mesi», racconta Ibrahima Séméga, Segretario Generale di Omadeza (Oeuvre Malienne pour le Développement des Zone Arides), una Ong maliana che si occupa di tutela delle zone aride. A titolo di esempio, solamente quest’anno più di 90 mila maliani sono stati colpiti da violente inondazioni che hanno causato danni consistenti a infrastrutture e produzioni agricole.
Mentre parla, Ibrahima mastica una noce di cola e mi mostra i risultati di alcuni progetti di riforestazione realizzati nella parte saheliana del Mali. Infatti, a immaginare una soluzione contro la desertificazione e il riscaldamento globale ci aveva pensato già nel 2007 un gruppo di Presidenti africani, firmando un accordo per avviare un programma illuminato ed audace: la Grande Muraglia Verde.

IL NOBILE OBIETTIVO DI QUESTO PROGETTO DOVEVA essere quello di creare una sorta di «cintura verde» composta da un puzzle di opere di rinverdimento di vario tipo lungo tutto il continente, dal Senegal al Gibuti. Questo entro il 2030. Purtroppo, la pratica non conferma la teoria, e un recente rapporto delle Nazioni Unite rivela che finora solo il 4% del tracciato totale sarebbe stato ripristinato. Dall’unica stanza della sede della piccola Ong, Ibrahima Séméga sviscera lo scenario dei motivi che contribuiscono a rallentare i lavori. «Da noi la Grande muraglia verde stenta a partire, ma non per l’assenza di acqua come credono in molti. Il problema, qua, sono gli uomini».

QUANTO STA ACCADENDO A NIONO CONFERMA le sue parole: da più di due mesi gli abitanti del piccolo comune della regione di Ségou vengono attaccati dai gruppi armati radicali quando partono per andare a coltivare i campi o a vendere il bestiame. «Fortunatamente, ci sono comunque delle zone dove si può lavorare», continua il Segretario Generale di Omadeza, spiegando che nella regione di Kayes sono stati costruiti sette pozzi grazie ai quali dei gruppi di donne hanno potuto avviare delle filiere orticole.

Vorremmo visitare i lavori realizzati, ma per gli occidentali che si spostano all’interno del paese il rischio di essere sequestrati è talmente elevato che dobbiamo accontentarci delle foto ingiallite appese alle pareti della sede della Ong. L’inaccessibilità di molti territori e i crescenti rischi per la sicurezza stanno facendo sì che la coesione sociale della popolazione sia messa a dura prova: intere famiglie si separano e il paese risulta sempre più frammentato.

AD ESSERE DIVISO, TUTTAVIA, NON È SOLTANTO il contesto maliano, ma anche l’insieme di attori locali ed internazionali che dovrebbero farsi carico della Grande Muraglia Verde. Secondo il vice Direttore dell’Agenzia Nazionale che si occupa della realizzazione del progetto in Mali, Moussa Sidibe, lo scarso coordinamento a livello istituzionale costituirebbe uno dei principali freni all’avanzata dei lavori. E non è l’unico a pensarla così: anche la rivista britannica Nature ha recentemente invitato tutte le realtà in campo a spingere assieme sull’acceleratore dei risultati (Get Africa’s Great Green Wall back on track, 4.11.2020)

PER IL MALI, INFATTI, LA GRANDE MURAGLIA VERDE potrebbe rappresentare un mezzo per contrastare non solo la desertificazione, ma anche la migrazione clandestina. Attraverso la creazione di bande boschive, orti e appezzamenti agricoli, le comunità locali avrebbero una ragione in più per restare e investire sui luoghi d’origine. «È una questione di organizzazione», afferma Ibrahima. «I capi di Stato africani non hanno capito che dovevano partire dalla base, che nei nostri paesi è rappresentata dai sistemi agricoli e pastorali. A cosa serve costruire enormi stadi e grattacieli nelle città, se poi queste continuano a dipendere dalle zone rurali che vengono dimenticate? Succede che i villaggi si svuotano e i centri urbani si congestionano».

LA CAPITALE DEL MALI CONTA UFFICIALMENTE 2,5 milioni di persone, ma questi dati sono sicuramente sottostimati. Basta guardare per strada: persone senza qualifiche professionali che si trovano costrette a fare la fame perché hanno dovuto abbandonare le loro terre, per la guerra o perché non più fertili.
In Mali ripristinare i terreni «mangiati» dal deserto e riabilitarli all’agricoltura è urgente non solo per motivi ecologici, ma anche per una questione di sopravvivenza, poiché la gente che vive in questi posti è fra la più povera al mondo. Sono comunità il cui ritmo di vita è ancora intimamente legato a quello della natura e in balia degli shock climatici. «Europei ed africani, anche se non abbiamo avuto lo stesso passato, col cambiamento climatico corriamo il rischio di vivere lo stesso futuro», conclude Ibrahima Séméga.