Cresce la preoccupazione per Malak al-Kashif, la 19enne transessuale arrestata il 6 marzo al Cairo, nell’ambito di una vasta campagna di arresti arbitrari seguiti al tragico incidente ferroviario di Ramses.

Al-Kashif, la cui detenzione è stata prorogata di 15 giorni dalla Procura della Sicurezza di Stato, sarebbe stata vittima di violenze sessuali e avrebbe subito quello che in Egitto è noto come «test anale» a opera del personale sanitario di un ospedale pubblico.

A denunciarlo è la Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà, che ha fatto appello al ministero dell’interno affinché metta fine al «trattamento disumano» a cui è sottoposta, definendolo una forma di tortura. La ragazza, che meno di un anno fa aveva tentato il suicidio, in prigione è privata delle cure mediche necessarie al suo stato di salute (fisico e psicologico) ancora molto fragile.

La brutale pratica dei cosiddetti test anali è stata ripetutamente condannata dalle organizzazioni per i diritti umani egiziane e internazionali, ma continua a essere comunemente esercitata dalle autorità mediche egiziane nel caso di arresti di persone omosessuali, trans o presunte tali. Basata su teorie ottocentesche ampiamente smentite dalla comunità scientifica, la pratica servirebbe ad appurare la «abituale condotta omosessuale» della persona arrestata. Di fatto, costituisce una violenta e ingiustificata violazione del corpo del detenuto, imposta arbitrariamente senza possibilità che quest’ultimo possa rifiutarla.

Al-Kashif e la gran parte delle altre persone arrestate nell’ultima ondata repressiva (per lo più giovani sotto i 20 anni, senza alcun passato di attivismo), sono finite nell’inchiesta 1739/2018, con le accuse di partecipazione a organizzazione illegale e diffusione di notizie false. Capi di imputazione che niente hanno a che fare con le scelte sessuali degli imputati. In Egitto l’omosessualità non è esplicitamente un reato, ma è di fatto criminalizzata con l’uso sistematico di una legge del 1961 sulla prostituzione che punisce la «promiscuità».

Il primo clamoroso attacco alla libertà sessuale in Egitto fu il rastrellamento nel maggio 2001 della Queen’s Boat, una discoteca sul Nilo abituale ritrovo di una comunità gay egiziana e internazionale, che fino a quel momento (pur sempre nell’ombra) aveva vissuto in relativa tranquillità.

Lo storico processo portò alla sbarra 52 uomini egiziani e fu accompagnato da un’imponente campagna diffamatoria della stampa di regime e non solo, «rendendo lo spettro dell’omosessualità visibile – ha scritto l’attivista per i diritti umani Scott Long – in Egitto e nella regione». Il caso scatenò anche un dibattito nel movimento per i diritti umani egiziano, tra chi riteneva di dover prendere una posizione netta contro l’accaduto e chi preferiva non schierarsi su una battaglia impopolare.

Parlare di diritti Lgbt+ in Egitto è tuttora un tabù, ma dal 2001 sono molte le campagne e le organizzazioni che hanno preso parola e avviato un lavoro sistematico sulla questione. La rivoluzione del 2011 ha finalmente aperto uno spazio di dibattito più ampio e vivace, sebbene l’attivismo Lgtb+ abbia comunque preferito mantenere un profilo basso e un approccio informale.

Dal colpo di stato dell’estate 2013, insieme all’inasprimento generale della repressione per qualsiasi attività politica e sociale non allineata, anche l’attacco alle persone e comunità Lgbt+ ha avuto un’accelerazione drastica. L’Egyptian Initiative for Personal Rights ha documentato che il numero di persone arrestate e processate annualmente per crimini legati all’omosessualità è quintuplicato tra la fine del 2013 e l’inizio del 2017.

Le forze di sicurezza usano abitualmente app di incontri per attirare le persone nella trappola, usando spesso poi le chat come prove in tribunale. Le autorità hanno iniziato a colpire non solo i ritrovi abituali della comunità, ma anche case private in cui si pensa siano ospitate feste gay. I casi ricevono spesso ampia copertura sulla stampa, che non esita a esporre pubblicamente le persone coinvolte e i presunti dettagli scabrosi, associando spesso l’omosessualità al consumo di droghe e ai riti satanici.

Agli occhi di molti osservatori questo accanimento si spiega con la necessità di distrarre il pubblico dai problemi economici e politici sempre più gravi. «I gay» sono il diversivo, il capro espiatorio ideale in un paese ancora in gran parte dominato da una cultura omofoba. Ma sarebbe un errore farne una questione di presunta ‘arretratezza’ culturale. Dopo aver rovesciato il governo islamista, il regime di al-Sisi ha bisogno anche di legittimarsi come protettore della moralità e della religiosità.

Il messaggio, ancora una volta, è che nulla può sfuggire al controllo dello Stato.