Guevara Ibrahim, o meglio Gevara come si dice in arabo. Ha il nome del Che il 12esimo dei bambini uccisi dal missile che sabato scorso ha centrato in pieno il campetto da calcio di Majdal Shams, la cittadina drusa nelle Alture del Golan occupate da Israele nel 1967. Il bambino, 11 anni, è stato disperso per 24 ore. Poi i rilievi della polizia scientifica sui resti umani recuperati nel campo di calcio hanno sciolto ogni dubbio. Guevara è stato investito in pieno e dilaniato dall’esplosione. I suoi funerali si sono svolti ieri, accompagnati dal pianto dei genitori e del fratello più piccolo. Gli altri 11 bambini e ragazzi uccisi dal missile erano stati sepolti domenica alla presenza di tutta Majdal Shams. «Siamo una piccola comunità e il dolore di uno è la tragedia di tutti» dice Salman, chiedendoci di non rivelare la sua identità completa. L’endogamia è ancora oggi largamente diffusa tra i drusi e ha trasformato quelli che secoli fa erano i fedeli di una dottrina religiosa esoterica, con radici sciita, in un gruppo etnico che si è sparso tra Libano, Galilea e Siria.

A Majdal Shams sulle vetrine dei negozi, sulle auto, sui muri, ovunque appaiono i poster con i volti dei 12 piccoli «martiri» della guerra di attrito tra Israele e Hezbollah – parallela alla devastante offensiva israeliana a Gaza. «Non sappiamo da dove sia arrivato il razzo, vogliamo un’indagine internazionale sull’accaduto», afferma Salman sottolineando che il movimento sciita libanese ha negato di aver preso di mira Majdal Shams. Altri abitanti invece sono convinti che il missile sia stato effettivamente lanciato da Hezbollah o da un altro gruppo della resistenza libanese ma, aggiungono, l’obiettivo vero non era il campo di calcio o la comunità drusa bensì una postazione militare israeliana.

Quello di sabato non è stato il primo razzo indirizzato verso il Golan, un’area militare strategica che Israele non intende restituire a Damasco. Le alture sono state annesse unilateralmente allo Stato ebraico nel 1981 con un voto della Knesset non riconosciuto dalla comunità internazionale (ad eccezione degli Stati uniti). Men che meno dai 28mila abitanti di quattro centri drusi che 57 anni dopo il 1967, con poche eccezioni, continuano a considerarsi siriani sotto occupazione. I drusi del Golan inoltre tengono a distinguersi da quelli della Galilea che invece sono cittadini israeliani e fanno il servizio militare (anche tra di loro non mancano voci di dissenso, in passato quelle autorevoli dei poeti ed intellettuali Salman Natour e Samih Al Qassem).

Non sorprende perciò che la processione di ministri israeliani, tra cui quello delle finanze e leader dell’estrema destra Bezalel Smotrich, osservata in questi giorni a Majdal Shams sia stata accolta da forti proteste. Ieri è toccato allo stesso premier Benyamin Netanyahu accolto dalle bandiere nere sui lampioni di Majdal Shams e dei villaggi circostanti di Buqata e Masaada.  «Questi bambini sono i nostri figli, sono i figli di tutti noi», ha detto il primo ministro mentre i suoi assistenti deponevano una corona di fiori. A breve distanza alcune centinaia di cittadini e parenti dei bambini uccisi, tutti vestiti di nero, gli hanno urlato di «non sfruttare lo spargimento di sangue» a scopo politico e di porre fine all’offensiva contro i palestinesi di Gaza. Quando Netanyahu se n’è andato, alcuni hanno rimosso la corona appena deposta.

«Netanyahu e gli altri leader politici sono venuti qui allo scopo di affermare il controllo israeliano del Golan e non per un sincero cordoglio per i bambini morti», dice al manifesto Nizar Ayoub, un attivista della ong Marsad impegnata nel promuovere i diritti dei drusi sotto occupazione. «Da sabato sentiamo parlare di Majdal Shams come di una città israeliana e leggiamo sui giornali stranieri che le Alture fanno parte del territorio israeliano. È falso, il Golan non è in Israele lo dicono le risoluzioni dell’Onu e il diritto internazionale». Tuttavia, dopo tanti anni di occupazione, Majdal Shams cambia in parte e la nuova generazione dei suoi abitanti appare più integrata in Israele, dal punto di vista dell’istruzione e del lavoro, rispetto alle due precedenti. Alcuni hanno anche preso la cittadinanza israeliana.

«Ci sono due motivi principali dietro queste trasformazioni» ci spiega Nivin, studentessa in una università israeliana «il primo è che il modo di vedere la Siria (da parte dei giovani del Golan, ndr) è cambiato a causa della repressione delle proteste del 2011 da parte di Damasco. I siriani drusi non sono più tutti alleati di Bashar Assad, lo dimostrano le proteste (nella città drusa) di Suwaydah. E questo ha riflessi anche a Majdal Shams». Il secondo, aggiunge, «è legato ai cambiamenti nell’economia locale. Prima i drusi del Golan erano soprattutto agricoltori, producevano mele. Adesso tanti dipendono dal lavoro in Israele». Da parte sua Nizar Ayoub non nega questi cambiamenti però li ridimensiona. «Nulla resta uguale per sempre» ci dice «però non più del 20% dei drusi del Golan si è integrato in Israele e comunque solo il 6,5% ha preso la cittadinanza israeliana, in gran parte dei casi per avere una esistenza più semplice e poter viaggiare all’estero con poche limitazioni».

Ayoub ricorda che i drusi restano impegnati per motivi ambientali oltre che politici contro il progetto della società israeliana Energix che prevede la costruzione nel Golan di 52 turbine in tre parchi eolici. «Colpisce la nostra tradizionale economia agricola. Se attuato, il piano porterà alla confisca di 450 ettari di nostri terreni fertili».