Come promesso dal presidente iraniano Ebrahim Raisi a Samarcanda, dove partecipava al vertice della Shanghai Cooperation Organization, ieri la magistratura di Teheran ha reso noti i risultati degli esami di medicina forense relativi a Mahsa Amini, morta dopo essere stata arrestata dalla polizia morale perché non rispettava il severo codice di abbigliamento della Repubblica islamica. Secondo le autorità iraniane, il decesso della 22enne sarebbe dovuto alle «conseguenze di un’operazione al cervello per un tumore all’età di otto anni».

Nel caso della sedicenne Nika Shakarami morta durante le proteste – innescate il 17 settembre ai funerali di Amini – nel certificato di morte ottenuto dai reporter di Bbc Persian si legge che il decesso sarebbe dovuto a «ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro». La versione ufficiale della magistratura di Teheran è invece che sia morta «dopo essere caduta da un edificio».

IN UN TERZO CASO nelle proteste a Karaj, a est della capitale, le forze di sicurezza hanno ucciso un’altra adolescente, Sarina Esmailzadeh. Secondo la magistratura, la sedicenne si sarebbe «buttata da un edificio».

Come in Testamenti di Margaret Atwood, la causa ufficiale di morte è il suicidio. E torna in mente la scena inquietante del lungometraggio I gatti persiani del regista Bahman Ghobadi – iraniano di etnia curda come Mahsa Amini – presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2009, dove aveva vinto il premio speciale della giuria: la polizia fa irruzione in una festa privata dove si balla e si consumano alcolici. Per sfuggire alla retata, i ragazzi salgono sul tetto e lì, rincorso dai miliziani, uno di loro muore.

In riferimento alle cause dei decessi di Mahsa, Nika e Sarina le autorità mentono spudoratamente. Diversamente dagli anni scorsi, stavolta le famiglie non si arrendono e fanno sentire la loro voce attraverso il canale in persiano dell’emittente britannica Bbc e attraverso Radio Farda, canale finanziato dagli Stati Uniti e con sede a Praga.

Intanto, in Iran l’accesso a Internet resta però limitato: nel pomeriggio rallenta e la sera si blocca del tutto per impedire ai manifestanti di coordinare le proteste. Instagram e WhatsApp sono inaccessibili.

Per coloro che non hanno accesso alle reti VPN, che garantiscono anonimato e sicurezza, resta solo l’informazione di regime ma a veicolare il dissenso sono anche gli artisti, nascosti dall’anonimato: ieri mattina da diverse fontane di Teheran sgorgava acqua rossa come il sangue, a simboleggiare la violenta repressione. Le autorità municipali l’hanno fatta defluire, ma del rosso resta traccia sia in loco sia nelle immagini pubblicate in rete.

POCHI GIORNI FA la Guida suprema Ali Khamenei ha elogiato esercito e polizia per avere contenuto le proteste. E ieri i vertici di entrambi hanno rinnovato la propria fedeltà con una dichiarazione congiunta: «Sotto la tua guida e fino all’ultima goccia del nostro sangue e fino al nostro ultimo respiro, distruggeremo i maligni complotti orditi dai nemici giurati della Rivoluzione islamica».

Ma il dissenso continua e oggi alle 12 gli allievi delle superiori e delle università saranno presenti in aula ma faranno finta di non ascoltare i loro docenti. È la resilienza di quella fascia compresa tra i 15 e i 24 anni che rappresenta il 14 percento della popolazione della Repubblica islamica. Un paese che, con un tasso di fertilità attorno ai due figli per donna, il più basso del Medio Oriente, ha un’età media di 32 anni.

LA GENERAZIONE più numerosa – metà della popolazione – è quella tra i 25 e i 54 anni. Poco per volta, complici le politiche di controllo delle nascite, l’Iran sta invecchiando e, come in Europa, garantire pensioni decorose è una priorità del governo.

Alla luce di queste osservazioni demografiche, si comprende perché alle proteste di queste settimane partecipano generazioni diverse: ognuno ha qualcosa da rivendicare. I più giovani un futuro che non sia fatto di limitazioni delle libertà e disoccupazione dopo anni di studio. Gli adulti, la possibilità di invecchiare senza dover fare la fame dopo anni di lavoro.