A meno di quaranta chilometri da Nazareth in Alta Galilea sorgeva un villaggio, al-Birwa, raso al suolo dopo il conflitto arabo-israeliano del 1948. Lì nacque Mahmud Darwish nel ’41, considerato il poeta par excellence della Palestina, autore di una trentina di opere (tra poesia e prosa) e della Dichiarazione di Indipendenza Palestinese letta da Yasser Arafat il 15 novembre 1988. Esponente dell’OLP, a lungo ramingo tra Beirut, Il Cairo e Parigi, sostenitore di posizioni di pace e di una sincera apertura all’alterità, Darwish poté tornare in patria soltanto con gli Accordi di Oslo (1993). In seguito, si stabilì a Ramallah in Cisgiordania. Tra le sue sillogi più significative figura Non scusarti per quel che hai fatto, pubblicata originariamente nel 2004, quattro anni prima della morte (avvenuta a Houston), e ora stampata da Crocetti (a cura di Sana Darghmouni e Pina Piccolo, premessa di Monica Ruocco, pp. 208, € 17,00).

Il testo si compone di quarantasette liriche e sei poesie più lunghe: all’alta concentrazione politica fa da contrappeso un morbido lirismo, in bilico «come un misterioso accadimento». Così scrive Ruocco nel contributo prefativo: «Darwish affronta il tema dell’inesorabile declino dell’esistenza e del disfacimento del ricordo, che si fa sempre meno tangibile e sempre più immaginario. Partendo da memorie personali, materia legata inevitabilmente al vissuto storico di quella regione in cui, come nei versi di Abu Tammam in esergo, “né dimore sono le dimore”, Darwish ricostruisce una propria poetica dei luoghi e dei sentimenti. Ricordi reali si sovrappongono a frammenti immaginari, l’esilio personale diventa parte di un’epica storica che parte da Troia e arriva all’Andalus e al contemporaneo, l’io individuale si confronta con figure di un passato lontanissimo che rimonta nel tempo fino a Gilgamesh».

L’attenzione alla musica del verso («Il ritmo mi ha scelto, ma io sono un groppo in gola»), un’affilata profondità spirituale («Ho la saggezza del condannato a morte: / non possiedo niente perché niente mi possieda»), il senso del passato che si sfalda («Non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto. / Al mio altro ‘io’ dico: / eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili»), la traumatica esperienza della guerra («Se torni solo, di’ a te stesso: / “L’esilio ha mutato i suoi lineamenti…”»), il contatto con la cultura ebraica («Oh popolo di Cananea, festeggia / la primavera della tua terra e infiammati / come i suoi fiori»), le perforanti angosce dell’oblio («Sarai dimenticato, come se non fossi mai stato. / Sarai dimenticato come la morte violenta di un uccello, / come una chiesa abbandonata»): sono, questi, soltanto alcuni degli argomenti tipici della limpida dizione di Non scusarti per quel che hai fatto, paradossalmente vicina alle modulazioni oracolari di Yehuda Amichai.

Nel viluppo di una lingua araba alquanto flessibile, distanziatasi nettamente dal romanticismo classico degli esordi, Darwish intende la poesia come redress, riparazione alle angherie della storia e simbolo di una resistenza umanistica: «Non scrivere la storia come poesia, perché l’arma / è lo storico. E allo storico non vengono brividi / di febbre quando nomina le sue vittime e non sta ad ascoltare / il racconto della chitarra. E la storia / è la cronaca delle armi prescritte sui nostri corpi. “Il genio intelligente è il potente.” E la storia / non ha alcuna compassione che ci consenta di agognare / il nostro inizio né alcuna intenzione di farci conoscere quel che ci aspetta / o quel che abbiamo alle spalle…».