Se si dovesse fare un elenco completo dei pezzi scritti apposta o dei frammenti «rubati» come i baci canticchiati o appena accennati che entrano nelle immagini non basterebbe la voce di un’enciclopedia. Perché David Bowie, la sua musica, le sue canzoni insieme alla presenza magnetica della sua figura davanti alla macchina da presa attraversano il nostro immaginario. I pochi minuti dei corpi avvinghiati nella danza di Ragazzo solo, ragazzo sola (versione italiana di Space Oddity) in Io e te di Bernardo Bertolucci, con la voce di Bowie che canta in italiano, spalancano nel film una vertigine erotica in cui si annullano i confini dell’amore, i limiti del desiderio, della complicità, dei corpi melanconici, pieni di tenerezza, rabbiosi, spaventati in cerca di un altrove.

Così la bellissima danza di Denis Lavant in Mauvais Sang di Leos Carax sulle note di Modern Love. Sono sempre ribelli i personaggi che trascinano e si lasciano avvinghiare dalle canzoni di Bowie. Come il suo tenente colonnello Lawrence, quando incontrano le gote del giovane capitano giapponese Yonoi (Sakamoto), e dopo una lunga esitazione liberano come una tempesta violenta un’attrazione troppo a lungo trattenuta. Il biondo prigioniero, in quella che del romanzo di Mishima è lo specchio intimo su schermo, Furyo di Oshima, è un corpo alieno, Un uomo caduto sulla terra (citando il film di Nicolas Roeg), la superficie che attrae le pulsioni più segrete, inconfessabili forse per questa sua ambigua alterità. E proprio Roeg ha sempre detto che aveva voluto Bowie per il suo film perché nessun altro poteva incarnare un alieno con la stessa innocente spudoratezza. Ma la trasgressione non c’entra, è solo il confine delle nostre paure.

O dei nostri fantasmi. L’uomo che cadde sulla terra (1976) dal romanzo di Walter Tevis è il primo film di Bowie, già Ziggy Stardust, che diventa Thomas Jerome Newton, la creatura di un altro pianeta divorata dalla rigidità della Terra.

C’è qualcosa di inafferrabile nella grana di quella musica, un corpo che sfugge, che mescola i generi, che unisce maschile femminile transgender in un cosmo stellato, che rifiuta categorie e imposizioni. Che respira il sentimento del proprio tempo, anche quello piú oscuro, e solo Heroes o Station to Station con la sua sagoma scura che balena nella Berlino di fine anni Settanta, fanno di Christiane F. una quasi icona di quegli anni berlinesi, gli stessi della musica di Bowie.

Rebel Rebel risuona nel Buddha delle periferie, colonna sonora nella testa e nel cuore del suo autore, Hanif Kureishi (e anni dopo dell’omonima serie televisiva). Basta una canzone a raccontare il mondo. E Fame racchiude il senso profondo della sfida in velocità tra i due campioni di Formula 1, Niki Lauda e James Hunt (Rush).

Lui, Bowie, in tempi più vicini è stato Nikola Testa, in The Prestige, di Christopher Nolan, una sfida incessante tra maghi. Enigmatico nel prequel di Twin Peaks, Fuoco cammina con me, con la sua canicia rossa, autore anche di alcune canzoni della colonna sonora in Absolute beginners. Vampiro insieme a Catherine Deneuve in Miriam si sveglia a mezzanotte, l’icona sperimenta su schermo i suoi mille volti e insieme iconoclasta di sé stesso ne reinventa sempre nuovi. E infatti quando Schnabel gira Basquiat vuole Bowie per il ruolo di Andy Warhol.

È lui che ispira Velvet Goldmine capolavoro di Todd Haynes, la Londra glitter della sua «Life on Mars» (ma non ci sono le canzoni di Bowie) di cui il regista di Carol illumina dietro lo scintillio di mode e capricci e folgorazioni di vite consumate in fretta, il gesto che dichiara una rivolta. Anarchica, di piaceri, scritta sul corpo, e quello di Jonathan Rhys Meyers, il magnifico protagonista mescola Bowie e Jagger carnalità e seduzione.

Sottile, androgino, mutante Bowie appare come un orizzonte del possibile, una figura sempre paradossale e sfuggente. L’energia di una libertà che scorre sui bordi del fotogramma, nello spazio di un altrove forse impossibile, per sempre alieno.