Riconoscere la «responsabilità politica», guardare la storia in faccia, spezzare il lungo silenzio, senza chiedere scusa ma cercando il perdono: «Solo coloro che hanno attraversato la notte possono forse perdonare, farci il dono allora di perdonarci», mentre la Francia si impegna «a che nessuna persona sospettata di crimini di genocidio possa sfuggire alla giustizia» (molti hutu responsabili del genocidio sono rifugiati in Francia).

EMMANUEL MACRON ERA IERI a Kigali, 27 anni dopo il genocidio dei tutsi, 800mila – 1 milione di persone uccise nella primavera del 1994. «Vengo a riconoscere l’ampiezza delle nostre responsabilità», ha detto il presidente al Memoriale del genocidio, nel distretto di Gisozi a nord di Kigali. “Ibuka”, «ricordati» in lingua locale, ha ripetuto quattro volte.
Una strada stretta, tra negazione di un coinvolgimento diretto nel massacro dei militari francesi, pur ammettendo al tempo stesso una responsabilità politica, per non aver voluto vedere cosa si stava preparando quando il potere francese, sotto la guida di François Mitterrand, continuava ad appoggiare il presidente ruandese Juvenal Habyarimana, la cui morte in un attentato ha scatenato il genocidio.

PER L’ATTUALE LEADER del Ruanda, Paul Kagame, che è stato di recente in visita in Francia, le parole di Macron «hanno più valore che delle scuse». Ma mentre Kagame manifesta la volontà di aprire una nuova fase delle relazioni con Parigi, le parti civili, le organizzazioni di quelli che sono riusciti a sfuggire al massacro, si sono dette ieri «deluse» dalle parole di Macron, che non ha chiesto ufficialmente perdono a nome della Francia.

All’opposto, un nocciolo duro del gruppo dirigente socialista che negli anni ’90 lavorava con Mitterrand, nega ancora e non ammette nulla. «A Arusha nell’agosto 1993 – ha spiegato Macron – la Francia pensava, a fianco degli africani, di aver strappato la pace». «Sforzi lodevoli e coraggiosi», ma «sono stati spazzati via da un meccanismo genocidario che non voleva ostacoli alla sua mostruosa pianificazione».
Il discorso equilibrista di Macron è basato sui risultati del rapporto della commissione Duclert, un gruppo di storici a cui il presidente ha affidato uno studio per chiarire il ruolo della Francia in Ruanda tra il 1990 e il 1994 e che ha concluso a «un insieme di responsabilità pesanti e schiaccianti», ma ha escluso la complicità nel genocidio.

«GLI ASSASSINI che infestavano le paludi, le colline, le chiese non avevano il volto della Francia – ha detto Macron – e la Francia non è stata complice. Il sangue colato non ha disonorato le sue armi né le mani dei suoi soldati che anch’essi hanno visto con i loro occhi l’innominabile, curato le ferite e soffocato le lacrime». Dei militari, difatti, avevano messo in guardia sulle minacce del potere hutu. Ma «la Francia non ha capito che, volendo fare ostacolo a un conflitto regionale o a una guerra civile, restava di fatto a fianco di un regime genocidario». Per i socialisti legati alla presidenza Mitterrand, il rapporto Duclert è al massimo «una verità», come ha ammesso l’ex primo ministro Bernard Cazeneuve, ma non “la” verità. Hubert Védrine, segretario generale dell’Eliseo nei primi anni ’90, combatte una battaglia personale per evitare di essere coinvolto nel genocidio. Macron prova a voltare pagina senza dimenticare, dopo «27 anni di distanza amara», di «incomprensione», di «tentativi di ravvicinamento sinceri ma incompleti» (Sarkozy era stato a Kigali nel 2010).

IL PREZZO DI QUESTA SVOLTA, denunciano ong umanitarie come Acat (cristiani per l’abolizione della tortura) o Freedom House, è evitare di parlare di diritti umani con Paul Kagame, accusato di repressione degli oppositori.

È stato nominato un ambasciatore francese a Kigali, posto da tempo vacante. È stato riaperto un centro culturale francese, dopo che il Ruanda ha voltato anni fa le spalle alla lingua di Molière per scegliere l’inglese. Tra i due paesi è in corso un riavvicinamento economico, grandi gruppi francesi stanno tornando con progetti di investimento.

La strada «né pentimento né diniego» è intrapresa per il Ruanda. Più difficile è percorrerla per l’Algeria, anche in questo caso c’è un rapporto dello storico Benjamin Stora, ma le reazioni a Algeri (e in Francia) sono molto diverse da quelle di Kigali.