L’irruzione della voce nell’ultimo tempo della Nona Sinfonia di Beethoven non fu solo finalizzata a mettere in risalto un messaggio di fratellanza universale – abbracciatevi, Milioni! canta il coro – ma introdusse un significato inedito per il genere sinfonico. E una funzione, una destinazione nuova. Da divertimento privilegiato di una ristretta frangia sociale a manifesto ideologico che si rivolge all’intera umanità. Lo capì subito Mendelssohn. Nel 1840 la sua seconda Sinfonia, che ebbe il titolo di Lobgesang, canto di lode, affida alla voce umana testi tratti dalla Bibbia. Qualcosa di analogo è il Requiem tedesco di Brahms, che anch’esso intona testi biblici. Più una sinfonia che un vero requiem. Su questa linea arriviamo all’Ottava Sinfonia di Mahler, del 1906, che intona nella prima parte l’inno Veni, Creator Spiritus, di Rabano Mauro, e nella seconda la scena finale del Faust di Goethe. Al mito di Faust e a Goethe è dedicato il Festival di Carnevale del Maggio, cominciato in gennaio e che si concluderà alla fine di febbraio. Sulla scena del teatro fiorentino sarà rappresentato, dal 7 al 21 febbraio, il Doktor Faust di Ferruccio Busoni, diretto da Cornelius Meister, con la regia di Davide Livermore. È un’occasione per riflettere sul rapporto tra Goethe, il Faust e la musica del secolo XIX. A parte la serie di sublimi Lieder che via via Schubert, Schumann, Wolff, tra gli altri, intonarono su poesie di Goethe, è la figura di Faust a conoscere una singolare evoluzione sia nel teatro musicale sia nella musica sinfonica. Goethe diventa per i musicisti, come era stato, insieme a Schiller, per Beethoven, il punto di appoggio per una nuova visione del mondo. La romantica vicenda di Faust e Margherita non è, nemmeno per Gounod, una semplice storia d’amore.

Il suo Faust è già un’interpretazione del disagio sociale del tempo, dell’uomo di oggi in una società i cui meccanismi sembrano manovrati dal demonio. Basterebbe l’anacronismo del travolgente, ma sinistro valzer, danzato alla fiera di Francoforte. Schumann, nelle Scene dal Faust, finite, anzi interrotte nel 1853, a tre anni dalla morte, prima di entrare in manicomio (le si videro in Italia genialmente messe sulla scena del Teatro La Fenice di Venezia da Virginio Puecher nel 1985) oltrepassa la vicenda amorosa, e dedica tutta l’ultima parte alla scena finale, alla redenzione di Faust per opera dell’eterno femminino. Mahler probabilmente lo tenne presente. Ancora più inquietante, però, era stato Liszt, nella sua Faust-Symphonie, finita nel 1854, ma rivista e ripensata fino al 1880, in cui si affaccia l’idea che Faust e Mefistofele siano due facce della stessa individualità: il tema di Mefisotefele, infatti, non è altro che una deformazione dei temi di Faust e di Margherita, come se l’opera del demonio alla fine trionfasse. E difatti Liszt non sa come concludere la sinfonia. Vi aggiunge come finale provvisorio, ma che diventa definitivo, un Chorus Mysticus, nel quale un coro e un tenore intonano l’ultima strofa del Faust: tutto l’effimero non è che un simbolo.

Si pensa subito a Berlioz, che aveva finito la sua Damnation de Faust già nel 1846. Il tramite fra il musicista e Goethe è un poeta geniale: Gerard de Nerval, che aveva già regalato ai francesi una traduzione della tragedia goethiana. La visione di Berlioz e Nerval è pessimistica: Faust si danna, il dramma finisce con una discesa negli abissi dell’inferno. Berlioz anticipa, così, ciò che dagli altri musicisti è solo adombrato: il fallimento dell’idea faustiana secondo la quale per salvare il mondo basterebbe la forza della volontà. Pessimismo già presente, in realtà, nella tragedia: Faust, accecato dall’angoscia, s’illude di salvare il mondo, ma il rumore che sente non è di operai che costruiscono una diga a strappare terre dal mare, bensì delle pale dei lemuri che gli stanno scavando la tomba. Quanto a Mahler, dopo l’Ottava scrive l’amarissima, disperata Nona. E dopo la Nona restano gli abbozzi della distruttiva Decima. L’utopia faustiana è decisamente crollata.