Una colonna di macchine, degli spari esplosi in aria, insulti lanciati contro un gruppo di fedeli all’uscita dalla moschea dopo la preghiera del mattino. A Janja, Bosnia nord-orientale, dove intere famiglie musulmane vennero sterminate nella guerra degli anni Novanta, la vigilia del Natale ortodosso si festeggia anche così.

Non sono passate nemmeno 24 ore dall’annuncio del dipartimento del Tesoro degli Stati uniti sulle sanzioni contro l’uomo forte della Republika Srpska (Rs, una delle due entità, a maggioranza serba, della Bosnia-Erzegovina), Milord Dodik, accusato di corruzione e destabilizzazione del Paese, che già il clima di tensione diventa rovente, per di più alla vigilia dei festeggiamenti in pompa magna del 30mo anniversario della Republika, istituita a meno di un mese dallo scoppio della guerra.

Le sanzioni americane non sono che l’ultimo capitolo di una crisi esplosa la scorsa estate. L’allora Alto rappresentante, Valentin Inzko, che ha il compito di vigilare sul rispetto degli accordi di pace di Dayton, aveva introdotto una modifica al codice penale bosniaco, prevedendo il carcere per quanti negano il genocidio di Srebrenica e glorificano i criminali di guerra.

ALLA DECISIONE DI INZKO i rappresentanti della Rs, nessuno escluso, hanno risposto boicottando i lavori delle istituzioni federali. Dodik, però, si è spinto oltre. Nonostante gli avvertimenti del successore di Inzko, Christian Schmidt, secondo cui l’attuale crisi rappresenta la più grande minaccia alla stessa esistenza della Bosnia dalla fine della guerra, poco meno di un mese fa, il leader serbo nazionalista ha presentato all’Assemblea della Rs una risoluzione per il ritiro di alcune competenze in materia di difesa, giustizia e fisco, che negli anni erano state trasferite a livello federale.

La risoluzione, approvata, viene considerata da molti analisti come il primo passo formale verso la secessione dell’entità a maggioranza serba. Una risoluzione, peraltro, non sostenuta dalle opposizioni che al momento del voto hanno abbandonato l’aula. L’accusa mossa a Dodik è di voler strumentalizzare la questione per fini elettorali, incurante dei rischi che una secessione, paventata o reale, potrebbe comportare.

INSOMMA, UNA FARSA appositamente congegnata per guadagnare consensi alla vigilia delle elezioni in programma in autunno, dopo i diversi scandali di corruzione che hanno colpito la dirigenza serbo-bosniaca, ancor più odiosi in tempi di pandemia, quando la brama di denaro non si è arrestata nemmeno dinanzi alla morte.

GIÀ LE AMMINISTRATIVE del 2020 erano state un antipasto indigesto per tutti e tre i partiti nazionalisti – croato, serbo e musulmano – che hanno dominato il dopoguerra. La tentazione di menar il can per l’aia per salvarsi dal carcere è quindi molto forte per l’uomo della Srpska, ma non lo sarebbe così tanto se non esistessero anche delle condizioni a livello internazionale che giocano a suo favore.

In primo luogo, le crescenti tensioni tra Washington, Mosca e Pechino, che rischiano di scaricarsi nei Balcani forse in modo anche più violento di quanto visto in altri teatri, e l’inerzia, quando non la complicità, di un’Ue completamente allo sbando, con la Germania che da un lato minaccia sanzioni contro Dodik, senza far mancare il suo appoggio all’altro polo dell’asse nazionalista, quello croato; e con l’Ungheria che ha apertamente avvisato Bruxelles della sua volontà di porre un veto all’eventuale adozione di un pacchetto di sanzioni contro il leader nazionalista.

A PEGGIORARE IL QUADRO anche un documento pubblicato dal portale di notizie bosniaco, Istraga.ba, che rivela come il commissario europeo all’Allargamento, l’ungherese Oliver Várhelyi, fosse a conoscenza della risoluzione “secessionista” approvata dalla Rs ben prima di quanto non lo fossero non solo i media e l’opinione pubblica, ma anche le stesse autorità serbo-bosniache.

Non è la prima volta che lo stesso Várhelyi viene accusato di agire seguendo le istruzioni di Budapest, che negli ultimi tempi non ha mancato di esprimere apertamente il suo sostegno alle politiche di Dodik a difesa, ça va sans dire, delle radici cristiane del vecchio Continente.

ED È FORSE QUESTA la vera differenza tra l’Europa di oggi e quella di ieri: il sentimento di diffidenza, quando non di odio, verso l’Islam è ben più radicato ora di quanto non lo fosse trent’anni fa. Un sentimento ancora una volta ben interpretato dal premier ungherese, Viktor Orbán, che nella sua conferenza di fine anno ha detto: «Sto facendo del mio meglio per convincere i grandi leader europei che i Balcani possono essere più lontani da loro che dall’Ungheria, ma il modo in cui gestiamo la sicurezza di uno Stato in cui vivono due milioni di musulmani è una questione fondamentale anche per la loro sicurezza».

Nessuna voce si è levata a condannare queste parole. Segno, forse, che l’opera di convincimento è già a buon punto.

 

Lunedì 10 si svolgerà a Roma (piazza Santi Apostoli, dalle 11 alle 13) la manifestazione “Salviamo la Bosnia Erzegovina – protesta  per la pace e la stabilità” nel Paese balcanico.
Errata Corrige

Republika Srpska, sale la tensione dopo l’annuncio delle sanzioni Usa contro il leader dell’entità serbo-bosniaca, che tra corruzione e calcoli elettorali sente crescere la voglia di secessione. Accordi di dayton in gioco