Giorgio Agamben in un testo di circa trent’anni fa uscito su Libération sosteneva che, se da un lato popolo significa classi subalterne, dall’altro il suo significato confina e spesso coincide con la comunità di razza, di sangue, sempre pronta a sterminare chi rischia di intorbidirla. Il termine popolo indica quindi «tanto il soggetto politico costitutivo quanto la classe che, di fatto se non di diritto, è esclusa dalla politica». È «un concetto polare», «una complessa relazione fra due estremi». Nei modi di acquisizione della cittadinanza e nazionalità – moderni correlati del popolo – restano le tracce del sangue (ius sanguinis) e del suolo (ius soli).

Il popolo ha ovviamente una lunga storia, ha svolto ruoli emancipatori nelle rivoluzioni, così come nella costruzione della democrazia politica. Ma è il soggetto nel nome del quale si compiono e si sono compiuti grandi massacri e piccoli orrori.

Da ultimo, è il soggetto che prende il fulmine della sovranità nazionale contro i poteri selvaggi della cosiddetta globalizzazione neoliberale, e, spesso, contro quei flussi di altri «popoli» chiamati migrazioni. La presenza dei migranti espone infatti il nesso contingente tra diritti e popolazioni, interpella i confini della comunità politica nazionale che si rappresenta come popolo, interroga la gerarchia nella distribuzione delle risorse basata sulla cittadinanza. I populisti cercano di chiudere queste tensioni definendo e ridefinendo il nemico esterno e interno.

LA LEGITTIMAZIONE dell’estrema destra e della sinistra cosiddetta populista è passata per l’esperienza vittimaria del popolo oppresso da soggetti non nazionali. Contro la modernità disgregante del mercato, nazionale o globale che sia, si rimpiange la confortevole comunità – tenuta insieme da quelle convenzioni che sono la lingua o la cultura, o il sangue e la terra. Quella comunità non è mai stata edenica, spesso non è mai esistita, ma viene rappresentata come tale. Al legame forte comunitario, subentra il caos dell’individualismo, dei conflitti sociali e, per alcuni, dei diritti.

L’implicito taciuto è che il popolo che questi loschi soggetti prendono in carico ha caratteristiche di classe, razza e genere ben definite. Chi dice popolo in occidente dice maschio bianco eterosessuale. Che non è la «vittima perfetta» come lamentano i reazionari di varie latitudini. È il nome di un grumo di risentimento che, davanti al relativo declino della sua posizione di relativo benessere ci tiene a non essere l’ultimo soggetto della gerarchia sociale. A questa condizione sono connesse prestazioni economiche, sociali e psichiche. La comunità immaginata del popolo nazionale viene riprodotta dal «nazionalismo banale» delle istituzioni che lo celebrano con feste nazionali, simboli e discorsi pubblici. La sfera politica e mediatica invece che interpellarne la sostanza, la presuppone. Per poi lamentarsi dei barbari che ha allevato, i populisti.

I POPULISTI di destra e sinistra, quando dicono working class, intendono white working class. Questa nozione abbraccia anche le classi medie, ovviamente, nonché quelle dirigenti – senza le quali difficilmente si dà una teoria e una pratica razzista. Ripetiamo, inoltre, che qui la bianchezza ha confini ben precisi – in Inghilterra, per esempio, si definisce anche contro i lavoratori dell’Est Europa.

Ad ogni modo, la bianchezza non è l’epidermide ma un’attribuzione di un significato simbolico a un fatto che diventa così valore. Queste valutazioni sociali e culturali stabiliscono gerarchie di religione, «cultura», classe e genere. Da questo punto di vista, il caso ucraino è significativo: da migranti da stigmatizzare e sfruttare sono diventati il baluardo dell’occidente in armi contro le autocrazie degli altri.

W.E.B. Du Bois parlava di salario psicologico della bianchezza: l’accesso preferenziale al welfare (oggi welfare chauvinism), una miglior rappresentazione pubblica, un trattamento relativamente meno aggressivo da parte delle forze dell’ordine, una preferenza nel mercato del lavoro e nell’istruzione, sono tutte integrazioni al salario materiale. Permettono di fare i conti con la condizione del lavoro salariato facendo della classe una razza.

Cedric J. Robinson, in Black Marxism – testo del 1983, appena tradotto meritoriamente da Alegre -, parlava di capitalismo razziale. Questa formulazione indica che l’elemento razziale è consustanziale al meccanismo di creazione e sottrazione del valore sin dalle origini della storia dell’accumulazione. In termini volgari: non è un fatto «sovrastrutturale». Il razzismo non interviene come meccanismo accessorio, ma immediatamente informa la genesi e il funzionamento del sistema economico – come emerge anche da certe letture di Marx, d’altronde. La premessa è che il capitalismo non sia solo quello della fabbrica manchesteriana ma anche quello della colonia nelle Americhe nel XVI secolo, così come delle piantagioni statunitensi e delle dominazioni delle infernali imprese pubblico-private che saccheggiavano le Indie orientali.

QUESTO FATTO determina anche l’identità delle classi operaie occidentali, use a ottenere un certo agio anche grazie all’oppressione di altre classi operaie localizzate nella periferia o semi-periferia del pianeta. Da allora fino ad oggi, il nesso razza-capitale si evolve, muta, ma continua a informare l’oppressione portata avanti dalla doppia tenaglia di Stato e capitale.

In questo senso, la retorica sui «dimenticati della globalizzazione» è il risvolto di un lungo processo in cui chi si propone di combattere per le classi operaie più svantaggiate riproduce di fatto classi operaie razzializzate nelle due direzioni. Chi ha la cittadinanza e chi no, chi è razzialmente privilegiato e chi è oppresso. Cittadinanza e razza tendono a essere fatte coincidere, informalmente e discorsivamente, socialmente e istituzionalmente.

A questa dinamica non è possibile contrapporre altre essenze, altri popoli, altre virtuose comunità delle vittime. La storia ci insegna che i sogni diventano incubi. Che i popoli oppressi spesso si fanno oppressori. Che la schiuma della terra può produrne di nuova. Ribaltare virtuosamente gli stereotipi attraverso il passaggio identitario non porta ad un dialettico superamento degli stessi ma li eleva a nuove verità. Ma questa verità crea nuove vittime, in una spirale di violenza senza fine.

Rompere il nesso tra potere e identità è quindi la premessa per fondare una nuova politica che ecceda i sempre terribili confini della comunità e del popolo. Sempre Agamben, in un altro testo, La comunità che viene, scriveva del quodlibet, dell’individualità qualunque, «l’essere tale che comunque importa». La sua qualità sarebbe l’indifferenza ad ogni specificità identitaria – l’essere comunista, musulmano o con determinate caratteristiche fisiche, per esempio.

La comunità non è quella alle spalle, perduta e ricercata da nazionalisti e populisti vari. La comunità, come scriveva Jean Luc Nancy, è già presente in quanto «è ciò che accade (…) a partire dalla società. Niente dunque è stato perduto e perciò niente è perduto. Perduti siamo solo noi stessi».