Chi ha bisogno delle differenze? La domanda può sembrare retorica, ebbene non lo è. È che le differenze sono troppo preziose per sprecarle in sinonimi di bassa qualità. «Differenze» non si equivale a diversità, non corrispondono a un dissenso, né a un disaccordo. «Differenza» significa divaricazione, divisione. Che prosegue virtualmente all’infinito, finendo a volte in dispersione e frammentazione. Non è forse questa la storia della sinistra fin dalle sue prime battute? Non ha portato a molto altro che alla sconfitta, fino ad arrivare alla scomparsa e alla confusione con l’avversario, con la destra.

«Non ci sono più differenze fra destra e sinistra» è il nuovo senso comune ed è veritiero: non c’è più divaricazione fra i percorsi di destra e quelli della sinistra, è ormai un trentennio che le strade si sono reincontrate sotto il segno del cosiddetto neoliberismo, cioè dell’imperio del capitale, della speculazione finanziaria ma anche della cultura di vita borghese, classista e votata ai principi del merito, del prestigio sociale, dell’invidia verso il ricco e verso il lusso, della subalternità al potere. Anni e anni di governi tecnici, governi di unità nazionale, patti di stabilità, «lo vuole l’Europa» e via discorrendo, di culto del successo trasmesso 24 ore su 24 nelle Tv e sui social media, hanno annullato le differenze politiche fra destra e sinistra, e la fusione è avvenuta ovviamente nel segno del più forte: la politica è andata tutta a destra.

IN COMPENSO, a sinistra il vizio del costante «differire» non solo non è stato superato ma si è esacerbato ancora di più: persino il pacifismo non riesce più a unificare oltre le differenze, persino di fronte alle devastazioni patenti, come quella in corso in Palestina in questo momento, non si è più capaci di trovare punti d’incontro. I tempi di Zimmerwald (i cui protagonisti pure non brillavano per capacità di ascolto reciproco e concordia) sembrano un sogno lontano. Ma siamo sicuri che accentuare sempre ciò che ci divide rispetto a quello che ci unisce sia davvero l’approccio più intelligente? Il problema forse, più a monte, è non sapere più quello che ci unisce. Non sono più le condizioni economiche, non è più l’appartenenza di classe, né lo è la coscienza di classe. Non è più la solidarietà, né fra i lavoratori, né fra i popoli. Non sono più le lotte, che proseguono, incessanti, ma non trovano risonanza oltre gli stretti protagonisti: non uniscono più i «lavoratori di tutto il mondo».

VIVIAMO in un mondo alla rovescia e non serviva il pamphlet di un generale per saperlo, avremmo dovuto capirlo quando ci è stato chiesto di credere nei totalitarismi buoni, nel feticcio delle identità come strumento per combattere il razzismo e nello storytelling come strumento di verità. In questo mondo alla rovescia può capitare anche di invertire l’ordine dei distinguo: non sapere più quando è necessario operarli, e quando invece diventano deleteri. È un vizio non solo della sinistra, ma anche del femminismo. Delle tante rivoluzioni del pensiero, quella femminista è stata la rivoluzione che più ha lottato per fare della differenza – quella sessuale – il cardine di una visione del mondo che fosse infine non più subalterna, bensì divaricata, irriducibile, rispetto alla pretesa dell’uomo di esserlo con la U maiuscola; la sineddoche veniva infine smascherata come tale.

Oggi il femminismo ha largamente abbandonato il concetto di differenza per intraprendere due strade dissemintate entrambe di trappole: da una parte quella identitarista, abbarbicata a un concetto di «donna» da definire in chiave strettamente biologica/maternalista solo perché diventi un porto sicuro, una fiera etichetta rivendicativa da poter indossare pret-a-portér, ogni volta che fa comodo e possibilmente in chiave ricattatoria o vittimista, da perfetta self-made woman. Ne sanno qualcosa le tante leader/dive e figure politiche più o meno carismatiche o aspiranti tali, da Giorgia Meloni a Taylor Swift ad altre, che hanno imparato a dirsi «donna» non perché si riconoscano in un soggetto collettivo ma ogni qualvolta ritengono che la definizione giochi a loro vantaggio: mi attaccano/mi invidiano perché sono donna e perché sono una donna in posizione di potere.

DALL’ALTRO LATO, le stesse femministe hanno cominciato pericolosamente, negli ultimi trent’anni, a produrre la conflation, come direbbero in inglese – conflate è un verbo intraducibile, perché più che sovrapporre, come spesso si traduce, è simile a soffiare un concetto dentro un altro, come due palloncini, fino a quando le pareti di quello interno aderiscono perfettamente al palloncino esterno, privandolo di aria propria – fra differenza e diversità. Ed ecco così che le diversità si sono mangiate la differenza. Il soggetto «donna», da soggetto filosofico e politico che rifiuta di definirsi in relazione all’uomo, variegato e unitario per l’appunto, si è ritrovato a dissolversi in una lunga giustapposizione di intersezioni fra caratteristiche di diversità che certamente vanno tenute da conto, ma che non divaricano fra loro le diverse esperienze dell’essere donna «nella società degli uomini», per citare l’indimenticata Eva Figes.

Essere donna bianca è diverso dall’essere donna nera, essere donna transessuale è diverso dal non essersi mai poste il problema della propria identità di genere, essere donna lesbica è diverso dall’essere donna eterosessuale, avere figli è diverso dal non averli, ma nessuna di queste diversità fa la differenza; la differenza la fa essere donna in un mondo pensato per gli uomini, è una differenza di potere, e il potere prima di essere declinato per diversità deve innanzitutto essere rovesciato, o meglio, ripensato, partendo innanzitutto dalle divaricazioni drammatiche che produce, sotto forma di squilibri che generano possibilità di sfruttamento, oppressione, violenza; questo è il senso, il fine della politica.
Chi se ne occupa, però, da un po’ di tempo a questa parte si è messo a chiacchierare tanto di diversità per non far notare, per non ammettere, che ha rinunciato del tutto ad occuparsi di ciò che, invece, fa la differenza.