Per chi oggi va a scuola o all’università quella del Pci è una storia lontana, che non abbiamo mai vissuto. Una storia che a scuola non si studia, che ritroviamo a volte nei racconti di compagni e compagne molto più grandi di noi, oppure che si fa memoria collettiva e sembra quasi scritta in alcune strade, in alcuni palazzi delle nostre città, ma che parla di un mondo che non esiste quasi più.
Negli ultimi decenni l’attacco neoliberista al welfare, al lavoro, ai luoghi e alle organizzazioni collettive ha consolidato l’idea che il conflitto di classe fosse qualcosa di stantio, da lasciar passare con il ’900, e che la società del nuovo millennio si sarebbe dovuta fondare sugli individui, sul merito, non certo su divisioni di classe e contrapposizioni.

Il ruolo pedagogico delle organizzazioni politiche, la necessità di condividere strumenti di lettura e alfabeti alternativi a quelli dominanti oggi non esiste quasi più, disertando sempre più il terreno dell’egemonia. L’idea della sezione come luogo di dibattito, formazione, organizzazione e militanza ha lasciato il posto a una politica piegata alla velocità del dibattito e al dogma dell’efficienza, che può fare a meno di presidi territoriali e spazi collettivi.
Gli ultimi spazi a resistere alla frammentazione estrema e restare luoghi collettivi sono stati le scuole, ed è a partire da qui che organizzazioni studentesche come l’Unione degli Studenti già da metà degli anni 90 hanno provato a immaginare un modo di fare politica in grado di sperimentarsi, di prendere il meglio dal passato, puntando lo sguardo al futuro e con i piedi nelle contraddizioni del presente.

Abbiamo sempre avvertito la necessità di spazi fisici, di sedi, non per sostituire le sezioni in cui per ragioni anagrafiche non siamo mai entrati, ma per rispondere a un’esigenza che continuiamo a sentire come nostra: quella di avere un luogo in cui incontrare chi vive la nostra stessa condizione, in cui, anche nella periferia del piccolo comune di una delle tante aree interne del nostro paese, fosse ancora possibile discutere di ciò che accade nel mondo, dei processi economici che lo animano, dei cambiamenti nella storia.

Luoghi in cui accompagnare all’analisi la pratica mutualistica, la socialità, la formazione, in cui costruire scuole di politica, dove coniugare la militanza quotidiana con la tensione a immaginare un mondo diverso da quello che abbiamo visto come unico modello da quando siamo nati. Esiste ancora la voglia di attivarsi, riconoscendo l’urgenza di un cambiamento di sistema per rispondere alle crisi del nostro tempo, costruendolo attraverso l’organizzazione collettiva e la condivisione delle lotte.

Un’esigenza che si scontra spesso con il vuoto, con l’assenza di progetti politici in grado di dare una visione organica e alternativa di società, capaci di non scendere a compromessi su analisi e radicalità e di parlare ai molti, di ricostruire le «connessioni sentimentali» senza le quali la politica resta distante e chiusa.

Non so se possiamo essere nostalgici di un’esperienza che non solo non abbiamo vissuto, ma che non abbiamo neanche mai incrociato. Credo però che alla nostalgia si possano sostituire la curiosità e una memoria in grado di farsi studio, conoscenza e immaginazione. E soprattutto la consapevolezza che anche nelle miserie del presente si possa costruire la possibilità di una politica e di un futuro diversi.

(Coordinatrice nazionale Rete della Conoscenza che raccoglie Unione degli studenti e Link)