«La violenza costituisce un’esperienza fondatrice e contribuisce a fare di tutte queste persone, comprese quelle che lasciavano il loro Paese per motivi essenzialmente economici, degli esiliati». È questa una delle frasi fondamentali del libro di Camille Schmoll, Le dannate del mare. Donne e frontiere nel Mediterraneo, edito da Astarte per la collana Hurriya diretta da Federico Olivieri (pp. 246, euro 22) e tradotto da Marco Galiero.

IL TESTO SI CONFRONTA, tra altri aspetti delle migrazioni odierne, con le esperienze di violenza vissute da una parte delle donne che, tra il 2010 e il 2018, sono emigrate dalla sponda sud a quella nord del Mediterraneo, in particolare verso Malta e Italia. La violenza subita da una parte delle donne che migrano attraverso il Mediterraneo è uno dei temi al centro di questo libro, esito di una ricerca etnografica realizzata dalla studiosa francese, directrice d’études all’École des hautes études en sciences sociales, frequentando diversi «luoghi-frontiera» e svolgendo oltre 80 interviste, ispirata anche dal metodo di ricerca di Abdelmalek Sayad.

La violenza è costitutiva di tutte le esperienze raccolte da Camille Schmoll: una violenza evitabile se l’Unione Europea e i suoi Stati membri, tra cui particolarmente importante quello italiano, avessero costruito una politica migratoria differente dagli anni ’90 in poi. L’obiettivo principale di questa politica è quello di contrastare la cosiddetta immigrazione irregolare. Leggi nazionali, direttive comunitarie, accordi con Paesi terzi, sviluppo e utilizzo di tecnologie digitali e tradizionali di controllo sempre più sofisticate, incremento crescente dei poteri e delle risorse finanziare per Frontex, l’agenzia europea di difesa dei confini, hanno costruito un dispositivo flessibile che persegue uno scopo fondamentale: bloccare la mobilità di quelle popolazioni che per ragioni economiche e/o geopolitiche non riescono a ottenere i visti di accesso o sono considerate indesiderabili anche nella qualità di richiedenti asilo.

QUESTA FINALITÀ delle politiche europee e degli Stati membri della Ue va oltre gli orientamenti ideologici dei singoli governi. Essa guida le scelte europee sin dalle origini, a seguito dell’apertura dell’area di libera circolazione in Europa tra il 1985 (anno dell’Accordo di Schengen di rimozione dei controlli alle frontiere degli Stati firmatari) e il 1995 (anno di inizio della concreta entrata in vigore dell’Accordo).

La ricerca di Schmoll va, dunque, al cuore del problema delle decine di migliaia di morti nel Mediterraneo e delle innumerevoli sofferenze vissute da una parte delle donne migranti negli ultimi trent’anni. Morti e sofferenze evitabili, a cui è stata condannata una parte delle persone – non tutte – che sono emigrate, o hanno cercato di farlo, dall’Africa all’Europa. Schmoll ricorda diverse volte questo fatto: la sua ricerca non ha incontrato ogni tipo di condizione migrante femminile, ma soprattutto quella che è stata prodotta dalle politiche migratorie europee come uno scarto sacrificabile.

Le migrazioni non si muovono in uno spazio liscio, ma sono governate, e cercano di autodeterminarsi, in maniera differenziale. Sono, d’altronde, le stesse scelte politiche dell’Unione Europea a rendere esplicita questa volontà di selezionare in maniera gerarchica le popolazioni, aprendosi totalmente agli stranieri ricchi (che in alcuni Stati, come ad esempio Malta e Bulgaria, possono comprare la cittadinanza) o altamente professionalizzati (a cui concedere la Green card) e chiudendosi il più possibile ai potenziali richiedenti asilo, anche a quelli provenienti da zone di guerra, come la Siria o l’Eritrea (situazione a cui il libro dedica pagine memorabili).

QUESTE POLITICHE tendono a comprimere l’autonomia delle migrazioni e, soprattutto, delle persone migranti. Il libro di Schmoll si confronta con tale questione di notevole rilevanza sul piano concreto ma anche a livello teorico e politico.

Con essa fa i conti la stessa prefazione di Sandro Mezzadra, tra i principali sostenitori del concetto di autonomia delle migrazioni sin dalla fine degli anni ’90, il quale riconosce l’elaborazione in questa ricerca di un concetto femminista di autonomia, dunque di un concetto che mette al centro dell’azione, oltre che dell’analisi, più che la ragione individuale le relazioni sociali e, con esse, desideri, sentimenti e legami: un insieme di aspetti che restituiscono la ricchezza irriducibile delle migrazioni femminili, una ricchezza che troppo spesso deve sfidare costrizioni e repressioni, prima nei Paesi di partenza e poi lungo il viaggio, anche a causa delle politiche degli Stati europei di immigrazione.