Di ritorno da Bruxelles, lunedì notte, con i giornalisti presenti nel suo aereo il presidente turco Erdogan è tornato sull’incontro del 5 marzo a Mosca con l’alleato-avversario russo Putin.

E ha aggiunto un tassello alla discussione-fiume: la proposta turca di gestire insieme i giacimenti petroliferi siriani di Qamishlo (capitale del Rojava curdo-siriano) e di Deir Ezzor, quelli in cui è stato convogliato parte del contingente statunitense dopo il ritiro dal Rojava, lo scorso ottobre.

«Se lui dà sostegno finanziario, noi possiamo occuparci dei lavori e con quel petrolio aiutare la Siria distrutta a rimettersi in piedi», ha detto Erdogan. Usare i proventi del petrolio – affatto abbondante se paragonato ai paesi vicini – per la ricostruzione. Nessun dettaglio su quali compagnie dovrebbero essere coinvolte.

Putin, ha concluso il presidente turco, si è detto interessato. Altrimenti la stessa offerta sarà girata al presidente Trump che «a protezione» dei pozzi ha già mandato i marines, distolti dalla protezione dei curdi siriani invasi dalle truppe turche e i gruppi islamisti alleati.

Così Deir Ezzor, provincia dalla vita travagliata, prima tra gli epicentri della guerra civile e poi occupata e abusata dall’Isis fino alla liberazione per mano delle unità curde del Rojava, dovrebbe soddisfare una parte degli appetiti che intorno alla Siria ruotano.

Stesso destino per Qamishlo, riferimento politico e amministrativo dell’Autonomia nata in questi anni intorno al confederalismo democratico curdo.

Secondo analisti turchi sotto il controllo del Rojava si troverebbe circa il 70% del petrolio siriano, Deir Ezzor, Hasakah e Raqqa, circa 300mila barili al giorno (per fare un paragone: l’Iraq ne estrae tra i tre e i quattro milioni al giorno).

È già realtà invece la «ristrutturazione» demografica del corridoio di Siria del nord-est occupata nell’ottobre scorso: «Stiamo accelerando la costruzione di case e la creazione di una safe zone profonda 25-30 km dal confine – ha detto Erdogan – Abbiamo già costruito 1.500 unità abitative».

Destinate ad accogliere forse rifugiati siriani in Turchia, forse islamisti se Idlib dovesse definitivamente tornare in mano al governo di Damasco.

Perché la guerra continua: secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, anti-Assad, dall’entrata in vigore del cessate il fuoco cinque giorni fa sono giunti nella provincia nord-ovest un centinaio di mezzi militari turchi, mentre il numero di soldati ha superato le 9.200 unità. Da parte di Damasco si spara ancora: la stessa fonte parla di missili sull’area di Sahl Al-Ghab.