«Quand’ero solo Enea nessun mi conoscea. Ora che son Pio tutti mi chiaman zio». Così si dice che l’umanista Enea Silvio Piccolomini, divenuto papa Pio II, avesse commentato il formarsi intorno alla sua persona di uno stuolo di nipoti mai visti prima di allora. Tutti mi chiaman zio: in effetti fino ai tempi di Pio II, alla metà del Quattrocento, il nepotismo fu un fenomeno che coinvolse principalmente i maschi della famiglia papale, elevati ai ranghi più alti della gerarchia in nome del loro rapporto di parentela col pontefice regnante. Tutta Roma, in realtà, era una città a netta prevalenza maschile: maschi erano non solo preti, vescovi, cardinali e papi, ma anche gli umanisti e gli artisti che ne esaltavano l’operato, i banchieri che ne finanziavano il mecenatismo, e via di questo passo.

Da questo punto di vista, l’inizio dell’età moderna segna un punto di svolta. Almeno a partire dai papati rinascimentali di Alessandro VI Borgia e Giulio II della Rovere cominciano a farsi largo figlie, nuore, sorelle, cognate, nipoti e pronipoti del papa, che diventano ‘signore di curia’ occupando ruoli di rilievo anche sullo scacchiere politico europeo. In realtà il fenomeno ebbe durata ancora più lunga: se anche Pio IV e Gregorio XIII, due pontefici dell’austera Controriforma, salirono al soglio pontificio con dei figli avuti nella loro vita precedente, quasi tutti i papi avevano sorelle o fratelli che bisognava accasare degnamente; perché è vero che morto un papa se ne fa un altro, ma proprio perché rimanevano in carica per un tempo limitato senza possibilità di perpetuare la propria dinastia, i pontefici dovevano cercare in tutti i modi di evitare il declassamento della famiglia dopo la fine del loro regno. Lo fecero provando ad apparentarsi alle famiglie nobili italiane ed europee, attraverso una sagace politica matrimoniale che è al centro del libro Le donne dei papi in età moderna Un altro sguardo sul nepotismo (1492-1655) di Maria Antonietta Visceglia (Viella «La corte dei papi», pp. 386, euro 28,00). L’autrice è tra le maggiori storiche della Roma papale, da lei studiata tanto nella dimensione economico-sociale e politico-diplomatica, quanto in quella rituale e liturgica, e anche questo suo ultimo libro ricostruisce il ruolo delle donne nella familia pontificis attraverso una grande varietà di fonti: corrispondenze personali e diplomatiche, documenti notarili e contabili, dediche, cronache, encomi.

Il punto di partenza è il periodo fra tardo Quattrocento e primo Cinquecento, l’età d’oro delle figlie dei papi. In primo luogo, naturalmente, Lucrezia: la figlia di Alessandro VI alias Rodrigo Borgia. Anche in questo libro, Lucrezia Borgia viene riscattata dalla cattiva fama di cui pure continua a essere circondata nell’immaginario collettivo, per mostrare come non solo sia stata una figura molto più complessa dell’avvelenatrice seriale da romanzo vittoriano, ma nel corso dei suoi tre matrimoni abbia esercitato una crescente autonomia decisionale in fatto di scelte economiche, finanziarie e di mecenatismo. Lo stesso si può dire anche di Felice della Rovere, che pure da papà (sic) Giulio II fu amata di un amore meno intenso di quello – per i contemporanei e i posteri venato persino di pensieri incestuosi – che Rodrigo Borgia nutrì per Lucrezia. Quando Felice provò a organizzare un matrimonio tra sua figlia e un erede del duca d’Este, Giulio II la invitò senza mezzi termini a dedicarsi al cucito, ma poi si avvalse dei suoi servigi quando fu lei a far desistere gli Orsini dal passare dalla parte di Venezia durante la delicata congiuntura della Lega di Cambrai.

Dopo i pontificati Borgia e Della Rovere, fu la volta dei papati medicei, propiziati proprio da una donna – Clarice Orsini – il cui matrimonio con Lorenzo de’ Medici fu decisivo per consentire alla casata dei Medici di rinsaldare quei rapporti con Roma e con la Chiesa che portarono il figlio minore del Magnifico, Giovanni, a diventare papa nel 1513 col nome di Leone X. Quest’ultimo, come poi anche il cugino Giulio (Clemente VII), continuò a investire sui matrimoni delle donne della famiglia, preparando il terreno per le spettacolari ascese di Caterina e Maria de’ Medici, due fiorentine sul trono di Francia.

Il terzo capitolo è dedicato alle donne Farnese: Giulia, Costanza e Vittoria, rispettivamente sorella, figlia e nipote di papa Paolo III. La prima, che una tradizione vuole ritratta da Raffaello nelle sembianze della Dama col liocorno, fu la bellissima amante di Alessandro VI e, secondo voci insistentemente circolanti a Roma, aveva favorito la carriera ecclesiastica del fratello. Costanza, invece, ebbe un ruolo più appartato ma non meno attivo: dopo la morte del marito, il Conte di Santa Fiora, scelse di rimanere vedova per meglio gestire i suoi possedimenti. Vittoria fu per una quindicina d’anni offerta in sposa agli uomini più potenti del mondo (tra cui perfino Carlo V) e alla fine si accasò con il duca di Urbino, alla cui corte fu animatrice di tendenze religiose non convenzionali per la nipote di un papa, centrate com’erano sullo studio individuale delle Scritture, su una poesia impregnata di succhi filo-luterani (l’eterodosso Antonio Brucioli le dedicò delle Rime sacre) e su una concezione positiva del matrimonio in opposizione al celibato ecclesiastico.
Con le nipoti Borromeo di papa Pio IV, la spiritualità di queste matrone papaline rientra invece più strettamente nei ranghi della Controriforma e il loro patronage – ma sarebbe più giusto dire matronage – si esplica nella fondazione e nel restauro di chiese e conventi. Da questo punto di vista si distinse in particolare la sorella di Sisto V Camilla Peretti, che non si sposò mai (si dice sia lei la proverbiale ‘sora Camilla’ che tutti la vogliono e nessuno se la piglia) ma contribuì a creare la Roma che conosciamo ancor oggi.

Anche se il libro segue le vicende di molte figure femminili legate in un modo o nell’altro all’entourage papale, non si vuole dare l’impressione, errata, che esso presenti una galleria di medaglioni. Anche donne di prima grandezza vengono viste più come gruppo che come individualità. Nonostante la loro esclusione dalla sfera pubblica e la loro posizione apparentemente passiva come merce di scambio in una politica matrimoniale più grande di loro, le donne del papa avevano infatti diversi modi di far valere la loro capacità di modellare la realtà: acquistando, ereditando e trasmettendo beni, ad esempio, oppure rivendicando il loro ruolo nell’educazione dei figli, o ancora rifiutando di sposarsi o risposarsi per provare ad agire in prima persona. Con un’operazione di «prudente revisionismo storiografico» (p. 11), l’autrice restituisce alle ‘signore di curia’ il posto che meritano, senza però che questo implichi una valutazione esagerata della agency femminile all’interno di una società come quella europea tra medioevo e prima età moderna, che invece fu maschilista e patriarcale quant’altre mai.

Il libro parte con Alessandro VI Borgia e termina con Innocenzo X Pamphilj, accomunati dall’aver avuto al loro fianco due donne – la figlia Lucrezia e la cognata Olimpia rispettivamente – che vennero identificate come la reincarnazione della conturbante papessa Giovanna: la donna che, secondo la leggenda, nel IX secolo era riuscita a prendersi il trono di Pietro. Olimpia Pamphilj Maidalchini, in particolare, fu oggetto di moltissime biografie infamanti, che contribuirono certamente ad accelerare il tramonto della curia nepotistica. Ma la ragione profonda per cui alla fine questo mercato matrimoniale su scala europea venne abbandonato non fu forse una questione morale: quando Gregorio XV negli anni venti del Seicento modificò la normativa sul conclave prescrivendo il voto segreto e contenendo così i condizionamenti esterni, le donne del papa persero ogni attrattività e, nonostante le doti enormi da cui erano accompagnate, semplicemente si svalutarono.