Ha avuto un forte impatto, in Messico e non solo, l’assassinio di Patricia Susana Reyes Rivera, avvenuto nella notte tra sabato e domenica a Tijuana. L’avvocata 61enne, impegnata nella tutela dei popoli indigeni dello stato della Bassa California, si trovava a una festa, in compagnia di altre persone, quando tre uomini armati, incappucciati e vestiti di nero, hanno fatto irruzione nella sua abitazione, esigendo da tutti i presenti che consegnassero i loro beni. Quando l’attivista dei diritti umani aveva chiesto la restituzione del suo cellulare, uno dei criminali si era girato verso di lei e le aveva sparato in testa. Nell’attacco è rimasto ferito anche José Félix Villareal, docente dell’Instituto Tecnológico de Tijuana, raggiunto da proiettili alla testa e all’addome.

 

Patricia Susana Reyes Rivera

«Sono sotto choc», ha dichiarato la sua amica e attivista per i diritti umani Diana Boudica: «Ora basta. Esigiamo giustizia. Ni una más». E di «una grande perdita» ha parlato, a nome del Consiglio nazionale per la prevenzione della discriminazione, la leader indigena cucapah Mónica González Portillo, mentre la Commissione statale dei diritti umani ha sollecitato le autorità a chiarire quanto accaduto e a garantire giustizia alle vittime.

Una richiesta, tuttavia, destinata probabilmente a cadere nel vuoto se è vero che, all’interno dello stato, il 98% dei crimini resta senza colpevoli e che, a livello nazionale, per ammissione dello stesso sottosegretario per i diritti umani Alejandro Encinas, l’impunità riguarda il 90% degli assassinii di attivisti sociali e giornalisti.

Se i primi tre anni dell’era López Obrador sono stati, con l’impensabile numero di 105.804 omicidi, tra i più violenti della storia del paese, è proprio nella Bassa California e a Tijuana – la seconda città più pericolosa al mondo dopo quella, sempre messicana, di Celaya, nello stato di Guanajuato – che la situazione risulta particolarmente grave: il numero di vittime, qui, ha superato quota 300, portando il totale, dall’inizio del governo di López Obrador, a oltre 7.740.

Tra loro anche difensori dei diritti umani e giornalisti. Non a caso, dei nove reporter assassinati da gennaio in tutto il paese, tre – Margarito Martinez, Lourdes Maldonado e Marco Ernesto Islas – sono caduti a Tijuana. In una città con tali indici di violenza, del resto, esercitare la professione giornalistica è, secondo le parole della reporter Sonia de Anda, «come avere un proiettile diretto alla testa».

Il presidente, tuttavia, minimizza, incurante delle ripetute denunce degli organismi di diritti umani nazionali e internazionali, come anche della recente risoluzione del parlamento europeo sulla violenza contro i giornalisti. E accusa le forze conservatrici – e la stampa, con cui le sue relazioni restano pessime – di propagandare l’idea che nel paese «domini la violenza». «Vogliono proiettare l’immagine di un Messico in fiamme perché hanno paura dei cambiamenti che si stanno promuovendo», ha dichiarato a metà mese in una conferenza stampa in Chiapas.

Errata Corrige

Patricia Susana Reyes Rivera ennesima vittima della violenza criminale, in un paese dove il 90% degli assassinii di attivisti sociali e giornalisti resta impunito. A Tijuana situazione ormai fuori controllo. E il presidente López Obrador minimizza