L’insulto sessista dell’allenatore del Napoli contro l’allenatore dell’Inter, la denuncia di Roberto Mancini, le scuse ostinate di chi lo aveva offeso. Alla fine il perdono, la sciarpa manciniana che finisce sul collo di Maurizio Sarri e certifica che le scuse sono state accettate. Perdonare, sì. Ma non dimenticare, questa volta non ci sarebbe neppure il tempo.

Martedì Sarri dà del “frocio” a Mancini. Passa qualche giorno, polemiche arroventate. Domenica sera Daniele De Rossi, capitano della Roma, si rivolge a Mario Mandzukic, attaccante croato della Juventus: «Zingaro di merda».

Luciano Spalletti, da poco tornato sulla panchina giallorossa, trova il tempo per dire: «De Rossi? Doveva coprirsi la bocca». Nulla da aggiungere? Sì, «Manzukic prende per il culo tutti». Il ragionamento del sagace allenatore toscano fila: l’insulto razzista è un buon rimedio contro l’ironia.

C’è dell’altro, purtroppo. Molti esperti si affrettano a spiegare che la procura della Figc «non invierà al giudice sportivo la segnalazione del labiale dell’insulto di De Rossi». Semplicemente perché l’episodio non modifica il risultato del campo ed era di sola competenza dell’arbitro. Semplicemente? Poi c’è il conflitto d’interessi: di frasi razziste e sessiste è zeppo il frasario essenziale di Carlo Tavecchio, presidente della federazione calcistica italiana. Insulti con annesse via di fuga: scuse e giustificazioni, del tipo «sono stato travisato».

C’è dell’altro, ancora, purtroppo. La “classe dirigente” del Paese tace. Ieri sulle parole di Sarri, oggi su quelle di De Rossi. Si può pontificare su tutto, non sul calcio. Meglio, non lo si può fare quando un giudizio netto e inevitabile può voler dire meno consenso oggi e meno voti alle prossime elezioni. Come se il tifoso fosse l’ultima divinità dell’Italia contemporanea.

Stalin non c’è più, ma il tifoso nell’urna ti guarda, fidati. Nessuno interviene, tutti scansano l’argomento.

Quasi tutti, niente lancio di agenzia, almeno fino al pomeriggio di ieri. Un’eccezione nel deserto? Una c’è, pochi minuti dopo la schifezza. Un tweet, per iniziare: «L’insulto di De Rossi fa schifo, si vergogni». Firmato Luca Di Bartolomei, 33 anni, romano, romanista. E’ il figlio di Agostino capitano di una Roma che non c’è più. Anche Agostino se n’è andato, il 30 maggio 1994. Suo figlio Luca twitta da romanista, è pure responsabile nazionale dello Sport, per il partito democratico.

Spiega: «Lo sport in Italia è ancora vittima di una sottocultura macista. Non lo si pratica per migliorare se stessi, ma per sopraffare l’altro. Moriremo accoltellandoci, mentre dobbiamo crescere educandoci. E nulla potrà migliorare fino a quando un’accomandita di persone gestirà le cose in questo modo, cercando sempre di minimizzare e mai di testimoniare. Cosa? Che insulti, offese razziali o sessiste sono inaccettabili, semplicemente».

Sinistra, destra, centro, ieri in pochi hanno capito. O se lo hanno fatto, poi se ne sono infischiati. «Io parlo per me, nessuna polemica». Luca è una mosca bianca. No, non è un insulto.