Gli Stati Uniti hanno i loro primi profughi ambientali. Sono i 200 abitanti del villaggio di Jean Charles, rilocati a un centinaio di chilometri dall’omonima isola, per il 98% sommersa dall’acqua del mare. Siamo in Lousiana, a un’ora di macchina da New Orleans. Qui è tutto un intrico di bayous, i canali paludosi dell’immenso Delta del Missisipi che sfocia nel Golfo del Messico. Altri canali, quelli artificiali scavati dalle compagnie fossili per estrarre gas e petrolio hanno fatto sì che l’acqua salata e le mareggiate potessero penetrare in profondità nelle zone umide, accelerando i processi di erosione. L’Oceano si è così divorato quasi del tutto questo tratto di costa, collegato alla terra ferma da un lembo di terra dove la strada è protetta dal mare da una massicciata che però finisce sott’acqua quando c’è alta marea.

ARRIVIAMO A JEAN CHARLES UN PAIO D’ORE prima del tramonto. È domenica e qualche pescatore tenta la sorte nei pressi dell’entrata del villaggio, sotto lo sguardo di una colonia di pellicani marroni, tipici dell’area. A un primo sguardo gli effetti della devastazione ambientale fanno il paio con quelli della crisi climatica. Numerose case in legno sono diroccate, colpa dei numerosi uragani che si sono avvicendati nel corso degli anni. «Jean Charles non è morta, il cambiamento climatico fa schifo», leggiamo su un cartello ormai scolorito davanti a una di queste abitazioni ormai abbandonate. L’escalation di eventi estremi appare ormai irreversibile. Da Katrina, che nel 2005 mise in ginocchio New Orleans, se n’è contato uno quasi ogni estate. Rita, Laura, Gustav, Ike e Isaac da queste parti non sono più solo nomi propri, ma evocano soprattutto lutti e tragedie.

E CERTO HA DEL PARADOSSALE CHE QUI IN LOUISIANA e in Texas, gli stati dove più è attiva l’industria fossile, gli effetti del riscaldamento globale si facciano sentire con più forza. In realtà a Jean Charles, ridotta ormai a poco più di un miglio quadrato, c’è ancora presenza umana. Due persone hanno deciso di non abbandonare il villaggio, mentre altre ci vengono saltuariamenteperché hanno una sorta di «casa delle vacanze», tramandata per generazioni. Alcuni di loro ci spiegano che questo, fin dal 1830, era un insediamento di membri della tribù Biloxi-Chitimacha-Choctaw, «confinati» qui a causa dell’Indian Removal Act, una legge che obbligava i nativi americani a spostarsi a ovest del Missisipi. L’ulteriore reinsediamento avvenuto ai giorni nostri ha avuto le sue difficoltà e le sue lungaggini; solo nel 2016, grazie allo stanziamento di un fondo di 48 milioni di dollari si è sbloccato uno stallo durato anni. Ma quelli di Jean Charles potrebbero essere solo i primi profughi ambientali degli Stati Uniti e in particolare della Louisiana: l’ ufficio meteorologico statale prevede un innalzamento del livello del mare compreso tra 43 e 82 centimetri entro il 2067, eventualità che metterebbe più di 1,2 milioni di persone a rischio di inondazioni.

SI PREVEDE ANCHE UN AUMENTO DELLA FREQUENZA e della gravità degli uragani e delle precipitazioni estreme. A Cameron, paese che dista circa quattro ore di macchina da Jean Charles, incontriamo un ex abitante sull’isola, Travis Dardar. Anche lui è un nativo americano e ha lasciato i luoghi abitati da quasi due secoli dalla sua famiglia sette anni fa, prima del reinsediamento, preferendo proseguire la sua attività di pesca in un’altra località ricca di gamberetti e ostriche sulla striscia del fiume Calcasieu che si immette nell’Oceano. Tuttavia anche in questa località i problemi non mancano, tanto che Travis e i suoi colleghi qualche giorno prima del nostro incontro hanno inscenato una protesta contro la realizzazione di due nuovi terminal per lo stoccaggio del gas naturale liquefatto, che farebbe il paio con quello esistente, il Calcasieu Lng. In tutta l’area sono già tre i terminal attivi, ma si potrebbe arrivare a dodici se le richieste di permessi di costruzione venissero accolte.

«NOI PESCATORI DI GAMBERETTI SIAMO ORMAI rimasti in 35-40, prima dell’ultimo uragano eravamo circa il doppio», ci spiega Travis, che fa presente come anche il pescato stia diminuendo drasticamente. «Noi pescatori stiamo iniziando ad alzare la voce, a farci sentire, perché qui ci stanno sacrificando insieme a tutti i residenti di Cameron. Se costruiranno nuovi impianti, come proposto, sarà game over. Noi non riusciremo a sopravvivere. E non ci possono spostare in una città, perché questo è il nostro modo di vivere, in città non possiamo pescare», è il grido d’ allarme lanciato dallo shrimper mentre sulla sua imbarcazione ci fa esplorare il sinuoso canale che costeggia il terminal di Calcasieu. Nel tragitto passiamo accanto a una delle gigantesche navi che trasportano gas. Il traffico di queste imbarcazioni, qualora dovessero sorgere altri impianti, è destinato a crescere in maniera esponenziale, a tutto danno della ricca fauna e flora di questa zona umida

OLTRE AGLI IMMANCABILI PELLICANI e a numerose altre specie di uccelli, in queste acque abbondano i delfini tursiopi. Una vera celebrità è Pinky, un rarissimo delfino albino – dal pigmento rosato – che abbiamo l’enorme fortuna di incontrare durante il nostro giro in barca. È indubbio che sradicare Travis da questi luoghi, vista la passione che ha per il suo lavoro e per il poter stare a contatto con la natura, vorrebbe dire segnare per sempre la sua esistenza. Per questo è ormai infaticabile nella sua opera di denuncia degli effetti nefasti delle attività del comparto fossile.