«Siamo vicini all’accordo finale. Speriamo di poter dare presto buone notizie alla nostra nazione islamica, alla ricerca dell’indipendenza». Così si è espresso ieri, via Twitter, Suhail Shaheen, portavoce della delegazione talebana a Doha, dove gli studenti coranici sono alle prese con il nono giro di negoziati con Zalmay Khalilzad, l’inviato del presidente Usa Trump per la riconciliazione in Afghanistan.

GLI ANNUNCI sulla firma dell’accordo si accavallano da giorni, così come le voci sui dettagli del documento in 4 punti principali, sui quali c’è un’intesa sin dallo scorso gennaio: ritiro delle truppe straniere, garanzia da parte della guerriglia di smarcarsi del tutto dal jihadismo a vocazione globale, dialogo intra-afghano (tra i talebani e altri interlocutori politici, incluso il governo di Kabul) e un cessate il fuoco. I quattro punti rimangono sul piatto, ma non è ancora chiaro il modo in cui ciascuno verrà realizzato e legato agli altri. Sui tempi complessivi del ritiro americano si danno letteralmente i numeri: chi parla di 14, chi di 18, chi di 24 mesi di tempo.

Il presidente Trump due giorni fa, al G-7 di Biarritz, ha detto che non c’è nessuna fretta. In realtà ha dato indicazioni chiare a Khalilzad: il segretario di Stato, Mike Pompeo, ha ricordato che l’amministrazione vorrebbe chiudere il negoziato entro l’1 settembre e ribadito la posizione ufficiale: «Vogliamo portare a casa i nostri ragazzi a casa il prima possibile e nel maggior numero possibile, e assicurarci che il terrore non colpisca mai più gli Stati Uniti da quel terreno. Possiamo ottenere entrambe le cose». I talebani possono garantire di ostacolare – come già fanno – l’espansione della branca locale dello Stato islamico, ma gli americani vogliono mantenere in Afghanistan gli uomini necessari al controterrorismo (vedi articolo sotto ndr), cosa che i talebani, e altri attori regionali, non possono accettare. Quanto al cessate il fuoco, potrebbe riguardare inizialmente solo americani e talebani, con una riduzione della violenza in due province, o in quelle da cui saranno ritirati i primi soldati Usa, e poi eventualmente includere anche il conflitto con le truppe governative.

KHALILZAD È ATTESO A KABUL dal presidente Ashraf Ghani, che rimane in una posizione scomoda. Gli verrà «consegnato» un accordo scritto tra gli americani e i talebani e dovrà gestire la seconda fase, molto più complicata, che si terrà probabilmente a Oslo alla presenza di garanti «internazionali»: il negoziato interno con gli studenti coranici, rinfrancati dalla patente di legittimità politica conferitagli da Washington. Ghani fa sapere che il governo siederà al tavolo negoziale da una posizione di forza, ma sa che la propria sopravvivenza politica è incerta. Per assicurarsela cerca un secondo mandato alle elezioni presidenziali del 28 settembre, che però potrebbero saltare se nei prossimi giorni verrà ufficializzato l’accordo tra talebani e americani.

Uno dei principali sfidanti, il «quasi primo ministro» Abdullah Abdullah, proprio ieri ha detto di essere pronto a rinunciare alle elezioni, per favorire la pace.