L’arte nel suo farsi, che svela i meccanismi della sua stessa produzione. A viso aperto, senza infingimenti,  mettendo in piazza  dubbi, vizi e virtù (e lasciando in dote ai posteri archivi, libri, storie e drammaturgie, come ha voluto sottolineare il presidente della Biennale di Venezia Paolo Baratta, spingendo su «quel che resta» della mostra). Infine, la possibilità che l’esperienza estetica riporti in vita un senso di comunità andato smarrito: è un po’ questo il senso della rassegna curata dalla parigina Christine Macel (1969), già in Laguna con il padiglione francese di Anri Sala nel 2013 e prima ancora, nel 2007 con quello belga (Eric Duyckaerts). Attivissima in patria al Pompidou con le sue «prospettive contemporanee», Macel da qualche tempo si è spostata a Venezia per allestire la sua Viva Arte Viva, che aprirà i battenti per il pubblico dal 13 maggio (per chiudere il 26 novembre).
Dopo le ultime Biennali – il percorso esoterico di Gioni e quello politicissimo di Enwezor – lei si appella a un nuovo Umanesimo. Cosa intende con questa parola, in un’epoca in cui si vive sui social network e la condivisione avviene soprattutto online?
Non ho annunciato l’avvento di un nuovo Umanesimo, ma ho posto un interrogativo riguardo al suo essere a rischio di sparizione. Ho sostenuto la necessità di ripensare un modello di nuovo umanesimo, in un mondo in crisi e pieno di conflitti. Ho sentito alzarsi molte voci contro l’Esprit des lumières, critiche sempre troppo semplicistiche. Credo, al contrario che, anche se abbiamo assistito alla fine di alcune ideologie e alla «perdita della sfera pubblica», come diceva Hannah Arendt, abbiamo il dovere – in particolare attraverso l’arte – di reinventare il mondo. Se l’intelligenza spinge verso il pessimismo, io tenderei invece a scegliere «l’ottimismo della volontà». Antonio Gramsci, in carcere a Roma, aveva annotato nei suoi quaderni questa frase dello scrittore francese Romain Rolland: oggi è diventata il mio motto. L’Umanesimo pone fiducia in ciò che è umano, nel sapere, nella cultura, e avere speranza è già – come affermava il critico d’arte John Berger – una forma di energia. Non è un caso che proprio l’arte abbia avuto un ruolo fondamentale nella storia dell’Umanesimo. Resta protagonista in questa «difesa», nel movimento di reinvenzione che s’inoltra verso la trasformazione. Ernesto Neto, che ha realizzato un’opera con gli indiani dell’Amazzonia Huni Kuin, è convinto che non sia più tempo di fare rivoluzioni, ma di favorire le trasformazioni…

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Può aiutarci a visualizzare il percorso che faremo tra Corderie e Arsenale, in Biennale?
Nel mio itinerario, ho voluto che gli artisti fossero al centro dell’esposizione, da qui il titolo Viva Arte Viva. Il mio obiettivo è quello di ridisegnare una gerarchia in cui l’arte possa occupare un posto privilegiato rispetto al curatore, al critico, etc… Poi, dopo aver affrontato la dimensione del soggetto, si potrà uscire da se stessi per dar vita a un confronto serrato con il mondo dell’«altro». La narrazione sottesa alla mia mostra offre una risposta ai ripiegamenti su se stessi cui stiamo assistendo e alle paure fomentate dal populismo. Il visitatore si troverà così ad affrontare la questione dello «spazio comune» nel terzo capitolo dell’esposizione intitolato, appunto, Padiglione dello Spazio Comune. Poi, sarà la volta dell’ambiente naturale in quello dedicato alla Terra, della storia nel Padiglione delle tradizioni etc, fino ad arrivare all’ultimo, quello del Tempo e dell’Infinito. Sono nove universi che si susseguono senza cesure, creando una sorta di sottotesto. Il mio augurio è che il visitatore si lasci guidare attraverso le opere, vivendo l’esperienza offerta dal lavoro degli artisti, sentendosi allo stesso tempo impegnato in una riflessione.

Dalle sue prime dichiarazioni, la passeggiata fra le opere sembra «molto filosofica». Gioni aveva guardato a Jung, Enwezor al Capitale di Marx: lei invece?
Ho allargato molto il campo. Ho dedicato la maggior parte della mia vita alla lettura e all’arte. Non ho voluto scegliere una figura ispiratrice in particolare. Ho letto molto Friedrich Nietzsche, Walter Benjamin, Hannah Harendt o Gilles Deleuze, per fare solo qualche esempio, ma potrei anche citare dizionari, romanzi, opere di astrofisica o neuropsicoanalisi. L’arte del movimento, la danza e la musica hanno sempre risvegliato il mio interesse.

Christine Macel_Photo by Andrea Avezzù_Courtesy of La Biennale di VeneziaHD
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Il titolo «Viva Arte Viva» invita a una nuova percezione?
Ritengo che avere un’esperienza dell’arte sia fondamentale, non ci si può limitare alla storia delle idee, alle intenzioni teoriche. Come sostiene Yorgos Sapountzis, l’arte deve venire prima della teoria, non può accadere il contrario. Le riflessioni che riguardano la fenomenologia mi hanno sempre affascinata. Oggi si è risvegliato un interesse nuovo nei confronti di pensatori come Merleau-Ponty, anche perché le scienze cognitive hanno fatto molti progressi dagli anni ’70, soprattutto in tempi recenti. Così, ho scelto di porre particolare attenzione alle modalità di ricezione delle opere, attraverso il dialogo con gli artisti che parlano del loro lavoro, e con l’architetto con il quale collaboro, Jasmin Oezcebi.

Ha affermato che il pubblico sarà attivo. Ha parlato anche di pranzi collettivi… Può spiegarci perché ritiene sia importante?
Dopo la figura dell’artista, il mio secondo pensiero è andato al pubblico, al visitatore della mostra. La ricezione di un’opera è già una forma d’azione. È necessario però uno spazio deputato all’incontro non soltanto con l’opera, ma con l’artista stesso, che in genere abita all’estero. Per questo motivo, ho creduto fosse essenziale dare voce agli artisti, permettere al pubblico di ascoltarli, sia prendendo parte alla Tavola Aperta (basta fare il biglietto d’ingresso e iscriversi sul sito internet della Biennale), dove può dialogare in maniera informale, sia seguendoli in streaming o cercandoli nell’archivio. Ho chiesto che documentassero la loro pratica artistica con brevi filmati, da febbraio sono sul web. Anche tutte le performance saranno visibili in streaming e accessibili sul website della Biennale.

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Lei ha curato i programmi del Pompidou e ha avuto incarichi istituzionali. Che tipo di sfida è la Biennale?
Essere la curatrice del settore Arti Visive della Biennale è qualcosa di molto diverso rispetto al lavoro che si svolge dentro un museo. Il progetto è totalmente libero (con il limite dei mezzi a disposizione). La stessa libertà è più rara nelle istituzioni museali, dato che subiscono numerose pressioni. Una Biennale si assume dei rischi, il suo compito è proporre una visione che possa suscitare reazioni e riflessioni, promuovere artisti di ogni generazione e provenienti da qualsiasi parte del mondo, produrre opere che, in fin dei conti, saranno ciò che più rimarrà nel ricordo.

Quali sono le stelle del suo firmamento culturale?
Ancora una volta, devo rispondere con la mia attitudine a uscire dai confini. Essendo una storica dell’arte, mi piace moltissimo visitare i musei archeologici o di belle arti. Ma sono anche appassionata di letteratura, musica e danza. Guardo tanti film. Fra i più recenti, per esempio, c’è Deserto rosso di Antonioni: avevo visitato la mostra di Haroun Farocki che aveva riutilizzato alcune immagini di quel film. Ho appena finito di leggere il libro di Benedetta Craveri sugli ultimi libertini e sto leggendo ora le Cosmicomiche di Italo Calvino, che trovo fantastiche. Insomma, vivo un momento molto italiano!

 

SCHEDA

Dal 13 maggio al 26 novembre la Fondazione Merz e Muve, Fondazione Musei Civici di Venezia, presentano la mostra «Velme», un progetto site specific di Marzia Migliora. Le opere sono allestite in alcune delle sale del museo del ’700 di Ca’ Rezzonico. Marzia Migliora prova a far emergere le contraddizioni e i ripetuti sfruttamenti – delle risorse naturali, di quelle umane e del lavoro, propri della storia dell’umanità – attraverso le suggestioni che giungono dalla storia della città lagunare e dalle opere custodite a Ca’ Rezzonico, mettendole in dialogo e in contrasto con quelle da lei realizzate. L’artista compie questa operazione estrapolando dalla collezione alcuni elementi, vivificandoli e mettendoli sotto una luce nuova, spostando il punto di vista del visitatore. Tra le personali, si segnala anche quella di Renato Mambor che aggiunge al titolo la parola «trasformatore» (Isola di san Servolo, a cura di Alberto Dambruoso). Scriveva l’artista: «Voglio fare di tutto, ballare, cantare, scrivere, recitare, fare il cinema, il teatro, la poesia, voglio esprimermi con tutti i mezzi, ma voglio farlo da pittore perché dipingere non è un modo di fare ma un modo di essere».

In un bulimico tour, si può incontrare poi Damien Hirst con la mostra-kolossal a Palazzo Grassi e Punta della Dogana, Jan Fabre con i suoi «Glass and Bones Sculptures 1977 – 2017» (Abbazia di San Gregorio), Michelangelo Pistoletto, Isola di San Giorgio Maggiore (Basilica di San Giorgio Maggiore). «Alighiero Boetti: Minimum /Maximum» sarà alla Fondazione Cini nell’esposizione a cura di Luca Massimo Barbero (e anche sullo yacht SL118 Haiia). Altre tappe tutte americane: all’Accademia per Philip Guston, alla Guggenheim per Mark Tobey e a Palazzo Bembo per Sam Havadtoy.