Dopo i capitali (e la produzione), eccoci ai migranti offshore. La prossima settimana la ministra dell’Interno britannico Priti Patel sfodererà la lama di Toledo – anzi di Sheffield – contro i persistenti e crescenti tentativi di sbarco attraverso la Manica. Una legge che permetterà la detenzione dei richiedenti asilo in centri di accoglienza fuori del territorio nazionale mentre la Gran Bretagna prende in esame le loro domande. Lo farà dopo essersi confrontata con la Danimarca – che ha varato una legge simile un mese fa – per l’apertura di centri di detenzione in Africa.

La legge si chiama Nationality and Borders Bill, e vanta il primato di rispondere alle stesse richieste mosse da Alternative für Deutschland, i post-nazi tedeschi, gli stessi contro i cui non così lontani predecessori il Regno Unito, eroico, combatté nel nome della “libertà” (di tutto tranne che di movimento). La destinazione ricade dunque a fagiolo sull’Africa, non solo perché ne provengono molti migranti («siamo qui perché voi eravate lì» è lo slogan che magistralmente sintetizza la migrazione) ma anche perché nei territori della corona come Gibilterra e soprattutto l’Isola di Man, finora riservati all’evasione fiscale – i conti offshore, appunto – il richiamo della madrepatria assediata è stato accolto con un rifiuto molto empirico e poco patriottico. Sorry, capitali sì, migranti no, hanno detto gli ingrati.

Bisogna dunque ripiegare altrove. Magari in posti come il Ruanda, dove i civilissimi danesi – eden socialdemocratico invidiato da tutto il mondo occidentale non ancora fascista – si sono rassegnati già un mese fa a sbarcare le eccedenze di manodopera che ricevono – e alle quali dovrebbero addirittura riservare una fetta di stato sociale. Il cacofonico unisono dei socialdemocratici scandinavi con i neo-nazionalisti inglesi denota l’aspetto ormai definitivamente post-politico della gestione occidentale del problema migratorio, che tende non solo al decentramento ma alla privatizzazione completa dei centri di detenzione, com’è già successo da decenni per il settore penitenziario statunitense, tanto per citare un esempio. Un processo che, lasciato indisturbato, punta dritto verso un mondo di gated communities, “comprensori” di ricchezza prevalentemente bianca difesi da vigilantes privati e circondati da universi concentrazionari.

Manco a dirlo, il “cosmopolita” premier Johnson appoggia la legge, dopo che nell’ultimo fine settimana 315 migranti hanno affrontato la Manica portando il totale annuale a 5.676: briciole rispetto agli sbarchi e agli ingressi in Europa, eppure intollerabili. La stessa Patel fa proprio un modello “pragmatico” e inclusivo già brevettato dai cugini australiani, che da tempo praticano queste misure schiaffando in posti come la Papua Nuova Guinea tutti quelli che rischiano la vita per mare nel nome di un futuro vagamente degno di questo nome (e qui non nuoce ricordare come loro stessi discendano dai reietti britannici – poveri o deviati che fossero – a loro volta deportati da Londra nel continente aborigeno per «fecondarne lo sviluppo»).

Ovviamente, nessuno sa chiudere le porte alla migrazione meglio di una figlia di migranti. Patel proviene da una famiglia di negozianti indiani trasferitisi a Kampala, in Uganda, in una delle miriadi di storie di migrazione, volontarie o meno, tipiche dell’impero ridimensionato a Commonwealth dopo la Seconda guerra mondiale. Questa legge si accompagna, poi, armoniosamente con la recente decisione governativa di tagliare gli aiuti umanitari e fa da contrappunto alla proposta, annunciata ieri, di esimere gli imprenditori in arrivo in Inghilterra dal fare la quarantena anti-Covid se il loro viaggio «è probabile abbia un significativo beneficio economico per il Regno Unito».