Cultura

Lo strappo delle donne nella Casbah di Algeri

Lo strappo delle donne nella Casbah di Algeri«Quand le voile se devoile», 2019

Intervista Un incontro, nella sua casa parigina, con la scrittrice e artista Farida Rahmani che nel suo libro e nella sua serie fotografica ha reso omaggio alle figure femminili della resistenza

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 4 febbraio 2020
La question, 2019

«Ascolto anche i Rolling Stones, non solo i canti gregoriani, la musica classica turca di Müzeyyen Senar e quella araba di Oum Kalthum», afferma Farida Rahmani (è nata ad Algeri, vive e lavora tra Parigi e Algeri) mentre prepara il couscous di verdure (mesfouf) come si fa in Cabilia, terra d’origine della sua famiglia paterna. Sulla credenza sono allineati vari libri di cucina, tra cui La cuisine de ziryâb di Farouk Mardam-Bey, La cuisine andalouse, un art de vivre – XIe-XIIIe siècle di Lucie Bolens, Les Soupers de Shéhérazade di Odile Godard. Dalla Cabilia, soggetto del suo prossimo libro, proveniva anche il noto cantante algerino di lingua berbera Cheikh El Hasnaoui, considerato il cantore dell’esilio. La sua canzone d’amore, Fadhma, era particolarmente amata dal padre dell’artista, e da lei associata al momento di commiato da lui.
Scrittrice e artista visuale, Farida Rahmani è profondamente legata alla cultura algerina, trasmessale dalla madre, dalla zia materna e dalla nonna. «Queste tre donne sono nate nella Casbah di Algeri da una famiglia di origine berbera, dove la tradizione, l’arte di vivere e la raffinatezza hanno avuto un posto importante. Nella mia famiglia sopravvivono le influenze culinarie e certe particolarità del modo di vestire, introdotte dagli andalusi e dagli ottomani. Pur vivendo a Parigi da diversi anni, non ho mai dato un taglio alle tradizioni algerine che mi sono state trasmesse proprio da queste tre donne».

La scrittura è un linguaggio che usi parallelamente a quello visivo: pittura, fotografia, installazione, film. Nel libro «La Casbah d’Alger, un art de vivre des Algériennes» (2003) qual è il rapporto con la tradizione orale che nella casbah di Algeri è affidata, in particolare, alle donne?
Penso che la scrittura sia una traccia piena di parole da ascoltare. È semplicemente plurale e significativa quando nell’arte evoca la memoria. La scrittura ha un interesse particolare per l’immagine, qualunque sia il linguaggio artistico. Più che una lingua, può anche rendere visibile ciò che è invisibile nell’immaginario. Per quanto riguarda la tradizione orale, affidata alle donne della Casbah è anche parte dei miei ricordi d’infanzia. La trascrizione avviene attraverso il racconto, la canzone, la metafora o i rituali magici, come il gioco poetico della «boqala» che si fa con l’aiuto di una brocca di terracotta piena d’acqua con cui è recitato un presagio, a volte improvvisato. Le donne lo pronunciano nelle notti del Ramadan e d’estate sulle terrazze delle case della Casbah, di fronte al mare che con la sua immensità stimola l’immaginazione. Queste piccole poesie, trasmesse a voce, costituiscono un’eredità di diversi secoli. Personalmente sono convinta, però, che la tradizione orale non debba essere trattata come un’eredità del passato, ma come una pratica del presente, attraverso la quale determiniamo ciò che siamo.

Alla Casbah è dedicato anche il film in corso di realizzazione «Je suis la Casbah d’Alger, dove l’architettura è l’elemento di partenza per raccontare storie del passato e del presente…
Proprio per via del mio libro, il ministero della Cultura algerino mi aveva contattata per collaborare alla sceneggiatura del film Je suis la Casbah d’Alger. Un lavoro che non avevo mai fatto prima, ma che ho imparato. Per due anni ho viaggiato avanti e indietro tra Parigi e Algeri per incontrare il ministro della Cultura dell’epoca, che ha seguito attentamente la storia del film e per parlare con il produttore della scelta degli attori e di tutto il resto. Nella mia prima sceneggiatura, l’architettura era la dimensione dello spirito e della memoria di questa città storica che stava in parte scomparendo. Le prime scene del film sono state girate sul lungomare del porto di Algeri, per poi finire in cima alla Casbah, costruita dai berberi, dove si trova il palazzo del Dey Hussein che fa eco alla famosa prigione di Barbarossa – qui regnavano morte e decapitazione. Tutti gli attivisti sono stati imprigionati e torturati in questa triste prigione, tra loro Djamila Bouhired, Djamila Boupacha e Djamila Bouazza. Il film finiva proprio davanti alla grande porta del carcere che tormenta ancora l’immaginario della mia infanzia, con una scena in cui una bambina con un abito rosso, a cui ho dato il nome di Houria (libertà), gira e balla sotto il canto delle donne, proveniente dalle terrazze della Casbah. Sfortunatamente, il produttore è morto dopo una lunga malattia e la realizzazione del film è diventata complicata.

Farida Rahmani (foto di Manuela de Leonardis)

Alle donne che hanno combattuto nella guerra d’indipendenza dell’Algeria, tra cui Djamila Bouhired, Zohra Drif e numerose altre, lei ha dedicato molte opere, a partire dalla serie fotografica «Femmes de la Casbah d’Alger durant la guerre civile». Cosa l’ha colpita delle loro storie?
Sicuramente, la giovane età, il coraggio, la determinazione e il sacrificio per il loro paese. Il ruolo svolto dalle donne algerine nella lotta contro l’occupazione francese è cruciale. In Algeria, dove per 132 anni il giogo del colonialismo ha lasciato tracce indelebili, queste donne hanno agito a lungo in clandestinità, in prigione, sotto tortura, in esilio e persino, alcune, nell’ospedale psichiatrico. Zohra Drif, la grande militante della resistenza algerina, mi ha raccontato che le donne hanno svolto un ruolo decisivo nella macchia. Si sono prese cura dei mujaheddin giorno e notte, lavando i loro vestiti, cucinando e cancellando ogni traccia della loro presenza. Portavano armi, volantini, carte d’identità false, messaggi, bombe, guarivano i combattenti, li nascondevano e li facevano scappare. Nei villaggi svuotati della loro popolazione maschile, proteggevano anche i bambini e gli anziani. Anche loro, come i mujaheddin, sono state catturate in combattimento. Il solo nome di Djamila Bouhired riassume la guerra in Algeria, la tortura, l’infamia, l’eroismo e la libertà. Tuttavia, se pure le donne occupano un posto importante nella storia della liberazione, il riconoscimento dei loro sacrifici rimane minimo. A differenza degli uomini, non hanno avuto accesso alle posizioni dirigenziali all’interno del Fronte di Liberazione Nazionale. Solo il 5 aprile 1997 ad alcune di loro è stata assegnata postuma la medaglia dell’ordine di merito nazionale.

E riguardo la sua serie fotografica che è anche un tributo? Ci sono ricordi personali?
In Femmes de la guerre civile à la Casbah d’Alger, la scelta della Casbah di Algeri non è banale. Ricordo la telefonata che ricevetti a Parigi, in un giorno di sangue. L’attacco dinamitardo si era verificato vicino al quartiere dove vive la mia famiglia. Quel giorno, in rue de la Lyre, nella parte inferiore della Casbah, ho perso diversi amici. È un quartiere ricco di bancarelle specializzate in tessuti festosi di seta, ricami con i fili d’oro tipici dei costumi femminili algerini d’influenza ottomana e andalusa, indossati dalle ragazze il giorno delle nozze. Un posto che è frequentato dalle donne che vanno lì per preparare il corredo nuziale e che durante la guerra civile era diventato un nido di islamisti: andarci voleva dire rischiare la vita. Nelle mie fotografie c’è una forte presenza del silenzio, in memoria delle donne uccise, disperse, violentate e torturate o forzatamente sposate con membri del gruppo islamista armato Gia. Il silenzio è il suono del dolore e dello strappo, del coraggio e della paura, rappresentato dalla calma di una donna che fissa lo spettatore. Nelle mie fotografie volevo far valere questo silenzio, forse per dar ascolto alla forza di un grido, all’intensità di un suono, sia dissonante che melodioso.
L’immagine della donna velata con l’«haik» non risponde a un’esigenza estetica: la sua componente plastica esorta a non dimenticare e denunciare. Fotografie che decifrano la nozione di tempo, del momento e dell’orrore della guerra civile nascosta dietro questa messa in scena tra passato e presente. Ricordo lo shock della visione dell’«haik» bianco con le macchie di sangue rosso, quel rosso caldo di sconforto. Era l’«haik» di mia madre imbevuto del sangue del mio defunto fratello, ucciso da un proiettile alla testa nel centro di Algeri. Parlo raramente di questa storia, perché è molto intima e dolorosa. Vivendo a lungo nella tristezza e nelle lacrime, mia madre aveva nascosto questo «haik» insaguinato che per lei era diventato un ex voto.

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