Una tuta, due magliette, un maglione, una camicia, un paio di calzini, una coperta, una pentola e una tazza: ecco tutto ciò che possedeva il prigioniero politico Miguel Hernández, morto a trentadue anni il 28 marzo del 1942 nel Reformatorio de Adultos di Alicante, dove stava scontando una condanna a trent’anni fra «topi, pidocchi, pulci, cimici, rogna» e continue sollecitazione a rinnegare le sue idee, se voleva ricevere un minimo di assistenza medica dopo aver contratto il tifo, la polmonite e poi la tubercolosi.
Arrestato nel settembre del ’39, mentre cercava come tanti la via dell’esilio, era stato sottoposto a un processo privo delle più elementari garanzie, e, dopo un’iniziale sentenza di morte, il regime franchista aveva scelto di lasciarlo morire in galera, lentamente e senza cure, per non replicare lo scandalo provocato dall’assassinio di García Lorca.

IN QUANTO «elemento di sinistra, affiliato al partito comunista», che «ha fatto molta propaganda rossa in giornali e opuscoli», Hernández fu dunque una delle innumerevoli vittime del bagno di sangue seguito alla sconfitta della Repubblica, così tenacemente evocate da una memoria che cerca di prevalere sui tentativi di cancellarla o, peggio, di imbalsamarla. Se di lui si parla ancora oggi, tuttavia, è perché la sua eredità non consiste nelle povere cose inventariate dai carcerieri: grande e singolarissimo poeta, Hernández ci ha lasciato un’opera di sorprendente potenza che ha impedito il compiersi di quanto aveva profetizzato in un suo verso: «un giorno/ diventerà giallo il tempo/ sulla mia fotografia».

LO DIMOSTRANO non solo l’edizione recente di una Obra completa (Edaf, 2017) ricca di correzioni e inediti, o l’accurata biografia Hernández. Pasiones, cárcel y muerte de un poeta, di José Luis Ferris (Fundación José Manuel Lara, 2016/2022) – forse la più documentata tra le tante scritte a partire dal 1955, quando il franchista Juan Guerrero Zamora osò proporre l’immagine di un ingenuo Miguel plagiato e indottrinato da Pablo Neruda e Rafael Alberti -, per non parlare della sua costante presenza in opere teatrali, graphic novel, canzoni e nuovi testi critici.
Una lunga e ininterrotta serie di omaggi, insomma, di cui fa parte anche Poesie d’amore e di guerra (Elliot, pp. 208, euro 20), la preziosa antologia che appare oggi a cura di Gabriele Morelli, illustre autore di «tante e fondamentali pagine» sulla poesia spagnola del XX secolo, come scrive Luis García Montero nella sua bella presentazione, nonché di un’ottima versione del Cancionero y romancero de ausencias di Hernández (Canzoniere e romanziere di assenze, Passigli, pp. 232, euro 20), ristampato proprio all’inizio di quest’anno.

LE POESIE SCELTE e tradotte da Morelli, sempre accostate ai testi in lingua originale, coprono un’ampia parte della produzione di colui che Juan Ramón Jiménez definiva «lo straordinario ragazzo di Orihuela», con giusta esclusione dei componimenti giovanili riuniti in Perito en lunas (1933) – irrisolto omaggio a Góngora e agli esponenti della Generazione del ’27, che ne avevano brevemente resuscitato lo stile barocco -, e mostrano chiaramente come Hernández, presentato a lungo come un autodidatta istintivo e naïf, fosse invece colto ed esigente, provvisto di un lessico ricchissimo e una notevole maestria nell’uso della metrica, che gli permetteva di spaziare dalle ottave al sonetto al verso alessandrino, dal ritmo della canción alla narratività del romance.
In un’epoca in cui il settanta per cento della popolazione spagnola era praticamente analfabeta, Miguel aveva infatti goduto del privilegio di andare a scuola dai gesuiti, anche se il padre, un brutale e autoritario allevatore di bestiame, l’aveva costretto a lasciare la scuola a quattordici anni per portare le capre al pascolo; da ragazzo, inoltre, aveva stretto un intenso legame con la modesta élite intellettuale di Orihuela, ispirata alla destra cristiana, e i suoi i primi e precoci versi erano comparsi su qualche rivista.
Non mancava insomma di basi solide e alimentate da letture insaziabili, anche se l’aspetto terragno da contadino in alpargatas (in parte frutto del desiderio di costruirsi in qualche modo un «personaggio») e i modi rustici potevano trarre in inganno gli ambienti intellettuali di Madrid, dove aveva tentato una prima e sfortunata incursione appena compiuti i ventun anni.
Nella sua magistrale prefazione, Morelli non manca di collegare le vicende di Hernández alla sua scrittura, com’è inevitabile nel caso di un autore la cui biografia è così strettamente intrecciata alla creazione poetica. Due realtà inseparabili che si evolveranno insieme, fino a produrre durante un secondo e più felice soggiorno madrileno, la raccolta El rayo che no cesa (1936), in cui il poeta trova finalmente la propria voce e delinea temi come il desiderio carnale, la solitudine e la frustrazione, l’amore insoddisfatto per la castissima fidanzata Josefina Manresa (la sartina che poi sposerà e dalla quale avrà due figli), ma anche per Maruja Mallo, formidabile pittrice gallega con cui vivrà una breve relazione.
Una poesia la cui sensuale concretezza affiora da ogni metafora, rivelando l’avvicinarsi del suo autore a un modo di pensare libero e laico, grazie anche a nuove esperienze e nuovi amici come Vicente Aleixandre (futuro premio Nobel che gli resterà vicino per tutta la vita e scambierà con lui centinaia di lettere) e Pablo Neruda, allora console a Madrid.

A SEGNARLO profondamente e a determinare una svolta nella sua opera, oltre che nella sua esistenza quotidiana, sono però l’avvento della Repubblica, la militanza politica e, più di ogni altra cosa, la guerra civile, da cui nasceranno libri fondamentali come Viento del pueblo (1937) e El hombre acecha (che risale al 1939, ma che venne pubblicato solo nel 1961), cui Morelli ha ampiamente attinto, traducendo parte di una straordinaria poesia di guerra, dolorosa e profondamente empatica, intrisa di denuncia e spesso destinata a essere letta davanti alle truppe, perché Hernández, a differenza di altri, si era arruolato senza esitazioni ed era partito per il fronte.
Non a caso il severissimo Juan Ramón Jiménez scriveva suo esilio americano: «I poeti non erano convinti di quel che dicevano. Erano signorini, imitazioni di guerriglieri che portavano a spasso fucili e pistole giocattolo per Madrid, vestiti con tute blu ben stirate. L’unico poeta, allora giovane, che lottò e scrisse sul campo e in carcere fu Miguel Hernández».
Il prezzo di un impegno vissuto con semplicità e mantenuto coerentemente sino alla fine, il poeta lo pagò per intero con una detenzione spaventosa, con la separazione dalla moglie amatissima e dal figlio, con il dolore per il primogenito scomparso per gli stenti a pochi mesi, e con una morte crudele quanto assurda. Fu in prigione, però, che l’ex pastore di Orihuela concepì e riuscì a scrivere un’ultima, magnifica raccolta – il Cancionero y romancero de ausencias – pubblicata postuma nel 1958 e definita da Morelli «poesia personale e al contempo coscienza e storia collettiva», luminosissima nonostante si condensi in «grumi di dolore al di là del tempo e dello spazio».
Così, esponendo ancora una volta in un linguaggio di rara musicalità le sue «tre ferite» (la vita, la morte, l’amore), Hernández fa emergere dall’oscurità in cui è immerso un tenace desiderio di vita, e negli ultimi due versi dell’ultima sua poesia non esita a dire, nonostante tutto: «Ma c’è un raggio di sole nella lotta/ Che lascia per sempre l’ombra sconfitta».

 

SCHEDA

Non tutta la poesia è adatta a essere cantata, ma i versi di Hernández sono così «evidentemente musicali» da dimostrare che il confine tra le due arti è sempre pronto a dissolversi. A dirlo è stato Joan Manuel Serrat, che ha dedicato alle «rime limpide e al ritmo cadenzato» del poeta di Orihuela un disco con una decina di canzoni. Oltre a lui, sono molti gli artisti che hanno musicato o cantato l’opera di Hernández: per esempio Victor Jara, Silvio Rodriguez, Joan Baez, fino a gruppi rock come Extremoduro e Reincidente, o al «rapero» Nach, senza dimenticare il grande Paco Ibáñez, cui si deve «Andaluces de Jaén» ( sui versi di «Aceituneros», dall’antologia «Viento del pueblo»), poi divenuta l’inno ufficiale della provincia omonima. Il primo a mettere in musica alcune delle composizioni di Hernández, con l’approvazione e la collaborazione del poeta, fu però il suo compagno d’armi Lan Adomian (nome d’arte di Jacob Weinroth), ebreo ucraino originario di Mohyliv-Podilskyi e musicista di valore emigrato negli Stati Uniti, che si era unito all’esercito repubblicano. E chissà se Lamian ebbe mai occasione di leggere «La fabrica ciudad», lunga poesia piena di metafore che Hernandez aveva dedicato alla città di Kharkiv durante il viaggio in Unione Sovietica del 1937, di cui troviamo un resoconto entusiasta nell’epistolario e nei numerosi articoli apparsi su riviste dell’epoca.