La matassa del Russiagate diventa sempre più ingarbugliata. Ad aggiungere elementi che fanno diventare più difficile comprendere quale sia l’entità delle ingerenze della Russia di Putin nella vita politica americana ci ha pensato il magazine The Atlantic.

Il giornale statunitense ha pubblicato un lungo articolo che ricostruisce lo scambio di messaggi tra Wikileaks e il figlio maggiore di Donald Trump nell’estate 2016, cioè nel pieno della campagna presidenziale che vedeva il magnate del mattone candidato alla Casa Bianca contro Hillary Clinton. E sempre nei giorni scorsi si sono rincorse le voci sull’elezione di un secondo procuratore con lo scopo di far chiarezza sulla vendita di una impresa di uranio che ha visto coinvolta Hillary Clinton come titolare del dipartimento di stato nel 2010.

Non è detto che la matassa sarà mai sbrogliata del tutto. È però certo che il Russiagate sta minando la legittimità della Casa Bianca. Le notizie diffuse dal magazine americano possono inoltre distruggere la credibilità di Julian Assange e della sua organizzazione.

I messaggi resi pubblici da The Atlantic fanno riferimento a documenti costruiti da siti russi vicini a Putin per screditare Hillary Clinton, dove Wikileaks chiede all’entourage di Trump se ne fosse a conoscenza, prospettando il reciproco vantaggio di una loro collaborazione. In fondo lo schema «il nemico del mio nemico è mio amico» gode ancora di ottima fama. E Assange ha sempre considerato Hillary Clinton una «nemica» da quando, a capo del Dipartimento di Stato, aveva sollecitato la cattura del fondatore di Wikileaks per la sua responsabilità politica nella pubblicazione di video del Pentagono sull’eccidio di civili iracheni da parte di truppe statunitensi. Poco importa allora una alleanza con un iperconservatore come Donald Trump.

Quello che colpisce dello scambio di tweet reso pubblico dal magazine americano non è quindi la presenza di notizie sconvolgenti. Sconvolgente è il fatto che dai tweet emerge una internità di Wikileaks a un meccanismo teso a disinformare sistematicamente la pubblica opinione attraverso un flusso di notizie teso a stendere un velo di opacità sulla realtà. È cioè funzionale alla produzione della cosiddetta «post-verità»: imporre una visione del mondo fondata sulla confusione prodotta dalla fabbrica del consenso. Con buona pace dello spirito hacker tante volte sbandierato da Julian Assange.

Non è la prima volta che Wikileaks si presenta come una organizzazione spregiudicata pronta a lavorare con chiunque pur di avere visibilità in Rete e tirar fuori dai guai Julian Assange. Nei mesi scorsi i rumors della Rete hanno segnalato informali contatti proprio di Assange con lo staff di Trump al fine di far congelare l’accusa statunitense di attentato alla sicurezza nazionale che pende sul capo del fondatore di Wikileaks. In cambio Assange si impegnava a rendere pubblici documenti che scagionavano Trump dall’aver chiesto favori a Putin per essere eletto presidente degli Usa. Solo voci, senza conferma. E senza smentita dai diretti interessati.

D’altronde, spregiudicato Assange lo è stato anche nei rapporti con Putin. Quando il fondatore di Wikileaks era libero di girare per l’Europa si era infatti trasferito a Mosca per dirigere una emittente televisiva voluta da Putin per contrastare il potere nell’etere dei media statunitensi e di Rupert Murdoch. Molti mediattivisti chiesero, senza averle, spiegazioni a Assange sulla sua scelta di lavorare con un politico che non poteva certo essere considerato un campione della libertà di parola e di espressione.

Assange ha sempre alzato le spalle. Secondo il peggiore machiavellismo il fine poteva giustificare i mezzi e ha continuato per la sua strada. Non è andato molto lontano. Rimane infatti chiuso dentro l’ambasciata ecuadoregna di Londra. Ma non è certo a fine corsa. I documenti in possesso di Wikileaks coinvolgono molti potenti della terra. Gli sono arrivati per la sua fama di organizzazione antisistema. E Assange può usarli come e quando vuole.