L’Afghanistan è un Paese da cui si fugge da 40 anni, tanto son durate le due ultime guerre. Dal 15 agosto poi il numero di chi se ne vuole andare è aumentato esponenzialmente. Eppure Gholam Najafi, scrittore e poeta afgano di 31 anni che da 15 vive in Italia (Venezia) e che ha già al suo attivo tre libri, in Afghanistan vuole tornare.

«LO SO È MOLTO STRANO forse, ma è necessario perché in realtà la partenza per l’Occidente è una grande illusione: andiamo in Paesi di cui non sappiamo nulla. Quando io sono arrivato in Italia c’era una grande accoglienza, si trovava lavoro e si poteva studiare e imparare la lingua entrando così a far parte di una nuova società. Ma oggi non è più cosi: come mediatore nei centri di accoglienza vedo che oggi a chi migra vengono dati solo sei mesi di tempo per trovare una casa e un lavoro mentre i loro famigliari in Afghanistan – che li pensano sistemati – fanno pressioni e chiedono soldi. C’è dunque un’immagine dell’Europa che è falsa e non vede il grande dolore che provano i migranti. Credo che la letteratura sull’immigrazione vada seminata nel Paese di partenza e non solo in quello di arrivo: far vedere insomma questa grande delusione cui si può andare incontro. Ecco perché voglio tornare. Anche per spiegare che cos’è l’esilio». Invitati dalla comunità locale del Comune di Dueville (Vicenza), proviamo a raccontare con Gholam e Gianni Pedrini di Ca’ Foscari questo calvario dell’esilio e anche le difficoltà oggi di chi vuole lasciare l’Afghanistan. Si affronta il tema dei corridoi umanitari e dell’impossibilità di ottenere adesso un visto umanitario.

E NATURALMENTE si parla della guerra e delle nostre responsabilità. Golam mostra le foto che ha fatto nel suo ultimo viaggio, attraverso la guerra, nel luglio scorso. Da Herat a Kandahar sino a Ghazni. Ma, stranamente, nelle sue immagini non c’è un solo soldato, una sola macchia di sangue. Ci sono invece immagini di manufatti antichi di epoca timuride confrontati con pitture e arte europea. Come racconta il suo ultimo libro, Gholam finisce a essere un ponte tra due culture. Tra due famiglie diversissime. Ma poi sciocca la platea quando dice «Voglio tornare».

Dopo l’incontro abbiamo tempo di approfondire davanti a una tazza di tè. Tornare in Afghanistan? Gholam è anche un hazara, fa parte di una comunità minoritaria sciita vessata da sempre e non solo dai Talebani. Ha anche una moglie insegnante… «Non ho paura anche se so che dovrò stare attento a quel che scriverò: ma non voglio entrare in questioni politiche. Voglio solo raccontare ciò che vedo e questo non mi fa paura. Non torno per creare un personaggio del nemico. Quanto a mia moglie mi auguro che ci sarà lo spazio perché torni a insegnare. Ora le cose si stanno riavviando e spero che con i nuovi bandi di marzo venga riammessa all’insegnamento».

E COSA DIREBBE Najafi a chi ancora vuole venire qui? «Direi loro di rimanere in Afghanistan. Ho visto la nostalgia di tanti e questa difficoltà di vivere in un Paese di cui non si sa nulla. Nostalgia che si somma alla delusione: molta gente da altre parti dell’Afghanistan, nei giorni dell’assalto all’aeroporto, correva a Kabul e anche tanti profughi fuori dal Paese volevano tentare la via dell’Europa. C’è chi ha venduto la terra e la casa e poi, se non ce l’ha fatta, è tornato al paese senza più avere nulla. Un periodo di tortura: ero lì e ho visto le facce di chi tornava senza più casa, terra, denaro…».

«QUESTA GUERRA è stata terribile per gli afgani e anche per voi. E se bisognava lasciare il Paese…allora sarebbe stato meglio farlo subito, senza nemmeno iniziare. Certo c’è stato un periodo in cui si è fatto un investimento soprattutto nel settore dell’istruzione ma poi questo lavoro è stato abbandonato, trasformato nell’ennesima delusione. Bisognava fermarsi un momento a pensare a non abbandonare così il Paese dando la sensazione che sarebbe stato meglio allora non iniziare affatto».

GHOLAM PENSA che sia possibile negoziare con i Talebani? «Penso – dice – che anche loro si siano resi conto in questi anni di come sono cambiate le cose. Hanno anche vissuto nei Paesi del Golfo che sono molto sviluppati e hanno imparato le nuove tecnologie. Credo che sceglieranno un modello iraniano ma magari accoglieranno anche modelli da altri Paesi e ciò vuol anche dire una politica di difesa delle minoranze, del ruolo della donna. Credo siano coscienti che se non faranno così ci sarà sempre una forma di resistenza e la possibilità dell’ennesima guerra civile anche se adesso una guerra civile è più difficile perché i Talebani hanno disarmato minoranze ed esercito nazionale. Spero che si rendano conto, e gli afgani con loro, che bisogna costruire senza appoggiarsi sui piedi di un altro. Perché se poi quello il piede lo toglie, tu caschi per terra».