Migliaia di rifugiati sono accampati da due settimane davanti alla sede Unhcr di Tripoli, dove non si era mai vista una protesta simile. Sono soprattutto eritrei, somali, etiopi e sudanesi, nazionalità a cui quasi sempre viene riconosciuto l’asilo politico. «In Libia siamo in pericolo, chiediamo il trasferimento in un paese sicuro», afferma Kosofo, 29enne nato in Sudan ma da cinque anni in Libia. Il nome è di fantasia: il ragazzo teme ritorsioni, è molto attivo nella protesta e fa parte del gruppo che gestisce le relazioni con i media.

Martedì scorso il ministro dell’Interno libico Khaled Mazen ha proposto ai rifugiati il ritorno nei centri di detenzione. Loro hanno rifiutato. Poche ore dopo Amer Abaker, sudanese di 25 anni, è stato ucciso in mezzo alla folla da uomini a volto coperto. Mercoledì i manifestanti hanno scritto a Papa Francesco, che li ha invitati all’incontro dei movimenti popolari tenutosi ieri.

Quante persone partecipano alla protesta?

Oggi (ieri per chi legge, ndr) abbiamo distribuito 2.500 sandwich. Giovedì eravamo diminuiti perché la notte prima circolava la minaccia di intervento della polizia. In altri momenti superiamo le 3mila persone.

Quali sono le condizioni nell’accampamento?

Fa freddo e piove. Non abbiamo riparo, né assistenza medica. Il cibo scarseggia, ma condividiamo tutto. I rifugiati che hanno qualche soldo portano da mangiare. Cuciniamo insieme e distribuiamo a ognuno. Ci aiutano anche alcuni libici comprando del cibo per noi.

Perché vi siete accampati davanti all’Unhcr?

Il primo ottobre le forze libiche hanno fatto un raid nel quartiere di Gargarish. Hanno arrestato i rifugiati casa per casa, comprese donne e bambini. Li hanno portati sulla strada principale, ammanettati, e poi nei centri. Chi ha provato a fuggire è stato colpito. Davanti a me hanno sparato tre donne. Una è morta subito.

E lei?

Io sono riuscito a nascondermi e a non farmi prendere. Il giorno dopo sono venuto all’Unhcr per cercare riparo e ho trovato altri sopravvissuti. Nei giorni seguenti ci sono stati rastrellamenti in diverse zone della città. Altre persone ci hanno raggiunto. La gente ha paura. Il 6 ottobre c’è stata una fuga di massa da Al-Mabani, dove erano state imprigionate migliaia di persone. Molti sono venuti qui e i numeri sono cresciuti.

Perché protestate?

Non possiamo più stare in Libia, dobbiamo andare in un paese sicuro. Qui finiamo continuamente nei centri di detenzione, in posti come Ain Zara, Sharia Al Zawya, Al Nasr. Io ero a Tajoura quando è stato bombardato nel 2019. Siamo registrati presso l’Unhcr ma le evacuazioni sono ferme. Se prendiamo il mare la guardia costiera libica ci intercetta e ci porta nei centri di detenzione, dove subiamo violenze e torture. C’è un numero enorme di donne incinte per gli stupri subiti nei centri. Quando l’Onu visita questi luoghi raccontiamo quello che accade. Loro ascoltano. Ma la situazione non cambia.

Ha provato ad attraversare il mare?

Sì, quattro volte. Ma sono stato intercettato e arrestato. Ogni volta sono riuscito a scappare. Alcuni rifugiati pagano per uscire, per esempio gli eritrei o i somali, ma per noi sudanesi è impossibile trovare i soldi. Noi possiamo solo scappare.

Perché ha lasciato il Sudan?

Nel 2003 il mio villaggio nel Darfur è stato attaccato. Molte persone sono state uccise dalle milizie del governo, compreso mio padre e una sorella. Poi hanno dato fuoco alle case. Siamo andati nel campo profughi di Kalma, vicino la città di Nyala, Darfur meridionale. Ho vissuto lì per 13 anni. Nel 2016 sono venuto in Libia per provare a raggiungere l’Europa.

È registrato presso l’Unhcr?

Sì, dal 2017. Ho visto trasferire rifugiati in Canada, Italia, Svezia, Norvegia. Altri li portano nei campi in Niger e Ruanda dove attendono il ricollocamento. Ma io sono ancora qua, non so perché.

Cosa chiedete a Italia ed Europa?

Chiediamo al primo ministro italiano, a quelli degli altri paesi membri e all’Unione Europea di aiutarci. Non possiamo più vivere in Libia. Evacuateci.