«La verità, niente altro che la verità». Non c’è ragion di Stato che tenga, né interessi economici pubblici o privati, e neppure equilibri geopolitici internazionali. «Se il corpo martoriato di Giulio Regeni porta una firma, è firma di tortura di Stato. Che sia opera di apparati fuori controllo o perfettamente integrati nel regime militare è forse tutto da appurare, ma l’Egitto deve sapere che non accetteremo alcuna verità di comodo».

È questo, sostanzialmente, il messaggio che si leva – a un mese dalla morte del giovane dottorando friulano – dalle decine di associazioni, partiti, sindacati e organizzazioni che hanno partecipato ieri pomeriggio al sit-in davanti all’ambasciata egiziana a Roma promosso dalla Coalizione Italiana Libertà e Diritti civili (Cild) e da Antigone, in adesione alla campagna lanciata da Amnesty international Italia, l’organizzazione che denuncia da anni le sistematiche violazioni dei diritti umani in Egitto.

«Uno Stato forte dal punto di vista politico protegge i propri cittadini, uno debole antepone gli interessi commerciali», ha affermato Patrizio Gonnella, presidente delle associazioni promotrici della manifestazione.

Concetti che sono stati riportati, in qualche modo e con il linguaggio certamente più consono alla diplomazia, nel colloquio che l’ambasciatore egiziano Amr Helmy ha accettato di intrattenere con l’avvocata Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, accompagnata dal collega Gianluca Vitale, dai deputati di SI, Nicola Fratoianni e Michele Piras, e dall’ex ministro del Welfare, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista.

«Abbiamo esposto all’ambasciatore egiziano le ragioni di questa manifestazione – ha riferito Fratoianni, lasciando l’ambasciata – È un caso che non è possibile derubricare ad incidente; abbiamo ribadito che le versioni, le tante, troppe versioni delle autorità del Cairo non ci hanno convinto, sono un elemento di opacità. I rapporti diplomatici e commerciali tra Italia ed Egitto, certamente importanti, come l’ambasciatore ha voluto ricordare più volte durante l’incontro, sono certo tali ma, per quello che ci riguarda, non sono più importanti di una vita umana. Abbiamo ribadito, per quello che sarà nelle nostre forze, che continueremo senza sosta a chiedere al governo italiano che non lasci nulla di intentato, ma che pretenda fino in fondo di avere giustizia».

Ferrero, invece, da ex ministro, sente puzza di bruciato, diffida della reale disponibilità del governo Renzi-Alfano: «Dalle stesse parole dell’ambasciatore egiziano è apparso chiaro che le richieste avanzate non sono all’altezza di un governo che vuole arrivare all’effettiva verità. È una questione di nettezza e fermezza nelle richieste di uno Stato che non può anteporre i rapporti economici ai diritti umani e al rispetto dei suoi cittadini».

In strada, su via Salaria, davanti all’ingresso di Villa Ada dove ha sede l’ambasciata d’Egitto, qualche centinaio di persone innalza cartelli e foto di Giulio Regeni. Cittadini italiani, qualche egiziano e molti rappresentanti delle associazioni aderenti, dall’Arci a LasciateCientrare, da Articolo 21 a Cittadinanza attiva, Link Roma, Asgi, Usigrai, Fnsi, Cgil, Cisl, Uil, e molte altre. A chiedere che non ci si fermi davanti ai tanti depistaggi costruiti al Cairo, ci sono Erri De Luca, Lorenzo Terranera e Oliviero Beha, insieme ad esponenti di Sel, Prc e Psi, tra i quali Pia Locatelli, presidente del Comitato dei Diritti Umani della Camera dei Deputati.

In piazza anche il segretario di Radicali italiani, Riccardo Magi, che si dice preoccupato dai «tentativi di depistaggio e insabbiamento» e aggiunge: «Sarebbe inoltre un bel segnale e un importante passo verso lo stato di diritto e il rispetto dei diritti umani, se l’Italia approvasse finalmente la legge che istituisce il reato di tortura, ferma al palo in Parlamento».

Ci sono anche i rappresentanti del «Comitato libertà e democrazia per l’Egitto» che negano di essere simpatizzanti dei Fratelli musulmani anche se difendono il regime dell’ex presidente Mohamed Morsi, e denunciano: «Al-Sisi è a capo di un partito che fa politica con i carri armati, questa è la realtà. E purtroppo la fine di Giulio è quella che fa chiunque si opponga ai militari». Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, non vuole accreditare verità preconcette: «I segni di tortura sul corpo di Regeni – dice – sono tipici del metodi adottati dalle forze dell’ordine e dalla polizia egiziani, ma non vogliamo arrivare a nessuna conclusione, non spetta ad Amnesty stabilire chi siano i colpevoli, anche se è doveroso mantenere alta l’attenzione».

D’altronde a parlare di «ricostruzioni fantasiose che fanno arrabbiare, maldestri e inaccettabili tentativi di dare verità di comodo», è stato ieri, dopo il ministro degli Esteri Gentiloni, anche il presidente del Copasir, Giacomo Stucchi, che al termine dell’audizione del sottosegretario con delega all’Intelligence, Marco Minniti, ha ribadito la necessità «che i nostri poliziotti e carabinieri sul posto ottengano dalle autorità egiziane tutte le prove audio e video, nonché notizie sugli ultimi contatti e movimenti di Regeni».

Una richiesta formulata esplicitamente anche dalla presidente della Camera, Laura Boldrini, che su Twitter bolla come «verità di comodo e piste improbabili» quelle spacciate nel «comunicato diffuso dal Ministero dell’Interno egiziano che parlava di una possibile “vendetta personale”».

Quella firma sul corpo di Giulio forse sarà un po’ più chiara quando, la prossima settimana, il professore Vittorio Fineschi consegnerà al pm Sergio Colaiocco, titolare dell’inchiesta aperta dalla procura di Roma, tutti i risultati dell’esame autoptico.