Hanaa Edwar, pacifista, femminista, costretta all’esilio durante la dittatura di Saddam, fondatrice dell’associazione Amal, una ong che promuove progetti a favore delle donne, «donna araba dell’anno» nel 2013, è una militante instancabile.

A vent’anni dall’invasione ci dà un’immagine cruda della realtà. Ha perso l’ottimismo suscitato dalla «rivoluzione d’ottobre», quando in piazza Tahrir, il 25 ottobre 2019, aveva manifestato un milione di iracheni, soprattutto giovani, ma non si arrende.

«Dopo vent’anni dall’invasione dell’Iraq da parte dagli Stati uniti e di altre truppe occidentali, il rovesciamento del regime dittatoriale di Saddam Hussein con il pretesto del possesso di armi di distruzione di massa e della violazione dei diritti umani, il sogno di un paese libero dalla dittatura e con un regime democratico non si è realizzato. Da vent’anni siamo governati da un regime molto debole che basa il proprio potere su una divisione etnico-religiosa: sciiti, sunniti e curdi. Ci avevano promesso un regime democratico ma il potere rimane nelle mani di forze conservatrici che hanno confiscato la democrazia dopo l’invasione. Si sono accordate per la spartizione del potere, senza opposizione, non c’è mai stata una transizione a un sistema democratico. In questi anni, tuttavia, la società civile ha approfittato della libertà di espressione – giornali, tv e internet – per promuovere campagne in difesa dei diritti umani, di sostegno alle ong e per ottenere una quota di presenza delle donne in parlamento».

Questo ha portato dei cambiamenti nel regime?

La politica del regime continua a essere basata su una divisione settaria: gli sciiti sono la maggioranza della popolazione e pretendono di gestire il potere. La debolezza degli apparati dello stato ha agevolato l’infiltrazione del sistema tribale nella gestione della giustizia: quando gli iracheni hanno contenziosi, persino assassinii, non si rivolgono alla giustizia ma all’autorità tribale, questo indebolisce il sistema giudiziario.

E per quanto riguarda la sicurezza?

La prima decisione dopo l’occupazione è stata quella di ricostruire l’esercito e gli apparati di sicurezza su basi etnico-religiose, i componenti sono stati scelti per la loro appartenenza e non per la loro competenza. Questo sistema ha alimentato la corruzione con la distribuzione di soldi da parte degli occupanti. Fin dai primi giorni dell’invasione i soldati statunitensi, invece di proteggere gli edifici pubblici, hanno permesso i saccheggi delle banche e dei ministeri. La corruzione e la mancanza di sicurezza hanno favorito il proliferare di milizie e del terrorismo. Le milizie rispondono a potenze straniere e non difendono gli interessi degli iracheni; peggio ancora i gruppi terroristi come al Qaeda, evoluta in Daesh, che nel 2014 occupava un terzo del paese. Daesh si è accanito soprattutto contro le minoranze: ezidi, cattolici, turkmeni, shabeki, con massacri e genocidi. La schiavitù sessuale è stata denunciata da donne ezide coraggiose, molte di loro sono scomparse.

L’Iraq è uno stato federale ma i rapporti tra Baghdad e Erbil sono sempre tesi.

Gli Stati uniti subito dopo l’occupazione hanno premuto per l’elaborazione di una nuova costituzione, una provvisoria da loro scritta nel 2004 è stata in parte ripresa in quella del 2005 elaborata dagli iracheni. Allora non c’erano ancora le condizioni per elaborare la costituzione, noi donne avevamo chiesto un rinvio ma Stati uniti e sciiti premevano per accelerare i tempi. Il risultato è una costituzione ambigua che necessitava di emendamenti che non sono mai stati approvati. L’Iraq è uno stato federale, al Kurdistan sono attribuiti dei poteri ma non è chiara la gestione delle risorse come il petrolio e il gas. Nel 2017 il governo regionale curdo ha organizzato un referendum per l’indipendenza, naturalmente la maggioranza dei curdi ha votato a favore e questo ha provocato una crisi profonda non ancora risolta, il governo centrale non manda al governo curdo le competenze del bilancio che gli spettano e i curdi trattengono tutte le entrate da esportazione di petrolio. Il Kurdistan è semi-indipendente dall’Iraq.

Non è l’unica contraddizione della costituzione irachena.

Nella costituzione non è chiaro se l’Iraq sia uno stato laico o religioso. Per l’articolo 2, «L’islam è la religione ufficiale dello stato e base della legislazione», ma poi aggiunge: «non può essere promulgata una legge contro la sharia, né contro i principi della democrazia, né contro diritti e libertà stabilite dalla costituzione». Quale legislazione è dunque possibile in Iraq?

Nella costituzione vi è anche un articolo contro il quale si sono mobilitate le donne…

L’ articolo 41. Secondo lo statuto personale del 1959 tutti gli iracheni erano cittadini, solo alcune minoranze potevano seguire la loro appartenenza religiosa. Questa legge è stata abolita per introdurre uno statuto personale (che riguarda matrimonio, divorzio, eredità, etc.) basato sulla diversa appartenenza religiosa, le donne si sono opposte a questo articolo e finora sono riuscite a bloccarlo.

Le donne, soprattutto le giovani, sono state protagoniste della cosiddetta «rivoluzione di ottobre». Esiste ancora il movimento esploso nel 2019?

Il movimento di ottobre affrontava tutti i problemi della nostra società: corruzione, disoccupazione, sovranità, dignità. I giovani in piazza lottavano per un Iraq libero da interferenze straniere, con una nuova visione politica, economica e sociale. La repressione è stata pesante: durante le proteste del 2019 e del 2020 più di 700 persone uccise, assassinate, molte scomparse… Tutti i comitati che dovevano indagare su questi crimini non hanno concluso niente. L’impunità è un altro dei gravi problemi dell’Iraq. Il movimento è ancora vivo ma è più concentrato sui vari problemi del paese. Molte delle manifestazioni che si svolgono in Iraq sono contro la disoccupazione, che per i giovani raggiunge il 25 per cento. Il 98 per cento delle entrate deriva dal petrolio. Più del 70 per cento del bilancio serve per pagare gli stipendi di quattro milioni di dipendenti pubblici. Quando il prezzo del petrolio scende il governo non paga gli stipendi. Non esiste un settore produttivo, le decine di industrie dei tempi di Saddam sono state bloccate dagli Stati uniti e la produzione non è mai ripresa. Questo è il prodotto dell’invasione di Bush, Blair e degli altri. Hanno occupato e distrutto il paese, la nostra sicurezza e l’economia, hanno accettato la spartizione del potere su base etnica e poi hanno abbandonato l’Iraq nel caos. Ma la responsabilità è anche delle Nazioni unite che hanno sostenuto l’embargo e l’invasione dell’Iraq.