Il presidente statunitense Joe Biden sa di aver incassato una vittoria importante dal suo tour diplomatico in Europa: affermare una consapevolezza condivisa sulle minacce poste dalla Cina.
Già nella dichiarazione congiunta dei leader del G7, rilasciata al termine del summit la scorsa domenica, sono stati esplicitamente trattati gli argomenti che fanno adirare Pechino: il rispetto dei diritti umani e politici nella regione dello Xinjiang e nella città di Hong Kong, oltre all’osservazione della pace e stabilità nello stretto di Taiwan, per la prima volta menzionato esplicitamente in un documento finale del G7.
Forse per cautela, però, nella sezione del documento sull’uso del lavoro forzato nelle catene di approvvigionamento globali non è citato alcun paese nello specifico, anche se risulta chiaro il riferimento alle politiche adottate dal Partito comunista cinese nella regione dello Xinjiang.

I LEADER delle sette superpotenze economiche hanno anche affrontato il tema della pandemia auspicando una nuova indagine internazionale e trasparente sull’origine del coronavirus in Cina.
L’incontro di tre giorni in Cornovaglia ha portato il G7 a pensare anche a un piano alternativo al progetto infrastrutturale cinese della Belt and Road. A differenza di quanto trapelato prima della chiusura del vertice, i sette big economici destineranno ai paesi in via di sviluppo un investimento di 100 miliardi di dollari per promuovere progetti con migliori standard climatici.

CHE LA CINA SIA un argomento cruciale per Biden lo si capisce dalla volontà di creare un fronte democratico contro le politiche adottate dal Partito comunista cinese. Ma al di là dei proclami, è presente ancora riluttanza di alcuni paesi occidentali sull’intenzione di adottare azioni dirette contro l’influenza cinese. Basti considerare le parole del premier italiano Mario Draghi, secondo il quale l’approccio verso Pechino deve essere fondato su tre elementi: cooperazione, competizione e «franchezza» sui temi di difficile condivisione. Per Draghi la Cina è «un’autocrazia che non aderisce alle regole» e per questo ritiene necessario «esaminare con attenzione» il memorandum d’intesa alla Via della seta cinese firmato nel 2019 dal primo governo Conte.

DRAGHI, che ha sottolineato come il tema dell’adesione dell’Italia alla Bri non sia mai emerse durante il vertice, ha ispirato la propaganda nazionalista cinese sui social network e sui media statali, che hanno definito obsoleto ed elitario il G7, contestandone le decisioni unilaterali. A rincarare la dose è stata l’ambasciata cinese nel Regno Unito, la quale ritiene inaccettabile l’ingerenza negli affari interni della Cina. Ma Pechino non sarà soddisfatta neanche del summit di ieri Nato-Usa, pensato per rinsaldare l’alleanza transatlantica. Per la prima volta in 72 anni di storia, la Nato ha riconosciuto le crescenti ambizioni militari della Cina come un «problema» per la sicurezza comune.

DAL COMUNICATO al termine del vertice tra Biden e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg emerge preoccupazione per il comportamento assertivo della Cina, che sta aumentando il suo arsenale nucleare e cooperando militarmente con un nemico storico dell’alleanza, la Russia. Stoltenberg, noto per la posizione critica verso Pechino, auspica comunque un dialogo costruttivo per affermare la necessità di far rispettare gli impegni internazionali.