«E se arrivano i russi?». Ivan capisce anche senza interprete e la sua risposta è chiara: «Resto qui, dove dovrei andare?». A Bakhmut i civili rimasti si raccolgono principalmente in un centro di aiuti umanitari a poche centinaia di metri dall’ingresso ovest della città. «Ma non hai paura?». «Certo, ogni giorno, ogni ora, ma cosa devo fare» risponde accalorandosi prima di essere interrotto gentilmente da Sonja: «Sua madre è qui in città». Non al centro, ma a casa sua, o meglio, «nello scantinato del nostro palazzo». E la notte non si gela? «Come no, io mi sveglio in continuazione per il freddo». Non serve che gli chiedo come fanno, Ivan mima il gesto di coprirsi con una coperta e conta «2,3» aggiungendo strati immaginari nell’aria.

LA MADRE NON È ANZIANA, ha sessant’anni, ma comunque non vuole andarsene. «Cosa ne pensa tua madre della guerra e dei russi?». Ivan fa un gesto con la mano, come a troncare un discorso che ha sentito troppe volte. «Politica. È tutta politica» riprende dopo qualche secondo. «Non si accordano perché ci sono di mezzo interessi più grandi e noi qui ne facciamo le spese». «Ma sono i russi che hanno invaso, no?». «Sì, certo, ma anche quello… idiot» dice in russo, usando l’aggettivo che da queste parti si sente sempre per indicare qualcosa di davvero stupido, quasi demenziale.

«Mio padre è russo, mia madre ucraina, io sono nato in Ucraina e voglio continuare a essere ucraino, ma non per questo avevo qualcosa contro i russi perdio, che c’entravano i carri armati e Putin… e, invece, ora? Tutto finito, li senti?». Ivan alza la fronte a indicare la strada alle mie spalle. Dall’esterno i boati delle esplosioni arrivano un po’ ovattati ma sono costanti, non c’è mai davvero silenzio. «È complicato» interviene Sonja, qui in molti hanno famiglie miste o parenti oltre il confine.

SONJA È UNA DONNA bassina e bionda vestita con la giacca mimetica, il giubbotto antiproiettili e i jeans, viene da un paese vicino e racconta che «quando la guerra è iniziata vedevo tutti questi ragazzi arrivare, giovani e magari anche inesperti, non so perché ma ho iniziato subito a preoccuparmi di cosa mangiassero, se avessero vestiti adeguati, se gli mancasse qualcosa…», si ferma e sorride con un imbarazzo che sembra quasi ammiccante, «come se fossero figli miei». Ha poco più di cinquant’anni ma è già nonna: «All’inizio sentivo di dovermi prendere cura dei miei figli, cioè di mio figlio e del bambino che con la compagna hanno avuto da poco, pensa che ha avuto il tempismo di nascere il 28 gennaio dell’anno scorso».

NEANCHE UN MESE DOPO i carri armati russi avrebbero attraversato il confine e sarebbe iniziata la guerra. «Poi, quando loro si sono messi in salvo io sono rimasta per tutti gli altri, sono come una vecchia nonna lo so» e ride di nuovo con una risata tenera e schietta che non lascia trasparire alcuna timidezza o indecisione.

Per tutto il tempo in cui parla, un’anziana alle sue spalle cerca di interromperla e dato che Sonja fa finta di ignorarla ripete la stessa richiesta, poi le si para davanti e pronuncia per l’ennesima volta la stessa domanda. «Non-si-può, ora non si può» scandisce Sonja. La signora vuole essere accompagnata a casa, le chiede di chiamare un taxi. Sonja la convince a entrare nel centro umanitario e a scaldarsi un po’ vicino alla stufa.

Si tratta di uno dei «Punti dell’invincibilità» istituiti dal governo ucraino per permettere ai civili delle aree più in difficoltà di non essere tagliati fuori dal mondo. C’è internet grazie alla rete Starlink, ci sono i generatori sempre collegati che permettono di ricaricare cellulari e torce e si è approntata una piccola farmacia di fianco a un bancone dove si distribuiscono cibi e bevande calde. Sulla parete della sala grande proiettano persino la tv nazionale, principalmente il tg e qualche programma di intrattenimento.

A BAKHMUT LA SUA ESISTENZA è fondamentale per chi è rimasto, secondo alcune stime ufficiose tra le 3 e le 5 mila persone, non soltanto per i servizi che offre, ma perché al centro si può mangiare almeno una volta al giorno, si riesce a sapere cosa succede fuori dalla città, si può parlare con i parenti lontani e guardare in faccia altre persone nelle stesse condizioni. Tra i due stanzoni girano anche diversi civili con evidenti disturbi psichici. Non è dato sapere se fossero così già prima della guerra ma tra anziane in pigiama che ripetono sempre la stessa frase e uomini con l’aspetto di senza-tetto che chiedono una sigaretta a chiunque passa di fronte alla porta, l’umanità raccolta in quelle quattro mura soffre a varie gradazioni di un contesto disperato.

«COSA FAI TUTTO IL GIORNO?» chiedo ad Artem, di origini armene, emigrato in Ucraina più di vent’anni fa: «Sto qui, poi esco a fare legna per la notte». Il perché non se ne va, lui che ha il doppio passaporto, è semplice: «Non ho più famiglia lì, dopo la guerra (tra Armenia e Azerbaijan, per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, ndr) la mia casa è diventata Bakhmut». E se arrivano i russi? «Non ci ho ancora pensato».

A uno dei pochi uomini in età da leva presenti nel centro chiedo perché non si è arruolato, «non ho mai sparato, odio le armi, tutte le armi» risponde. «Però odio anche i russi che stanno distruggendo tutto» aggiunge poco dopo. «Bakhmut resisterà?» gli chiedo. «Guardati intorno, ora Bakhmut è questa gente, noi siamo ancora qui e non ce ne andremo».